quando le antologie ci presentano il sommo poeta, ci viene quasi sempre detto che fosse di parte guelfa, per la precisione bianca: va detto infatti che i guelfi erano divisi in bianchi (che si rifacevano alla famiglia dei Cerchi) e neri (che si rifacevano alla famiglia dei Donati): a dire il vero fu solo la Toscana (Firenze soprattutto) che fu teatro dello scontro fra queste due famiglie.
Per fare un esempio moderno potremmo prendere un grande partito politico (la maggioranza, i bianchi), e una corrente (minoritaria, in questo caso i neri) al suo interno.
ma Dante, da che parte stava?
Formalmente la sua simpatia andava ai Guelfi, per di più di parte bianca; ma per quale ragione il Foscolo lo definisce “ghibellin fuggiasco” nei Sepolcri?...andiamo con ordine: va infatti ricordato quel che Dante stesso scrisse sia nella Commedia, sia nella sua unica ma ancor oggi valida opera politica, il “De Monarchia”.
Cominciamo dalla Commedia: qui il giudizio di Dante sull’Impero per eccellenza, ovvero quello Romano, è assolutamente il migliore possibile, pieno di gratitudine e di un certo senso di nostalgia; contemporaneamente la Chiesa e soprattutto il papato sono presi di mira con una sagacia incredibile, piena di critica e direi anche di condanna: un esempio per tutti è papa Bonifacio VIII (che aveva condannato Dante all’esilio) è solo uno dei vari papi dannati all’inferno.
L’aquila imperiale gode di pari fama, forse anche superiore all’esaltazione della Commedia, nel de Monarchia: la famosa teoria dei “Due Soli”: dove il Sole (l’Impero) illumina e la risplendere la Luna (il Papato), dove entrambi i pianeti godono della massima autonomia. L’impero devo quindi assolvere la pace terrena, quindi garantire che in terra gli uomini possano raggiungere un buon grado di felicità, mentre per quanto concerne il raggiungimento felicità celeste, la Chiesa è l’unica che se ne possa occupare: la presenza di Dio però è sempre al centro, infatti sia la Chiesa (ovviamente) che il potere imperiale discendono direttamente dal volere divino, garante della felicità universale.
Da questi ragionamenti possiamo quindi dedurre cosa?
Che Dante probabilmente abbia avuto due vite: prima abbia militato nella parte Guelfa, ricoprendo anche incarichi civili nel comune fiorentino e prendendo parte all’epica battaglia di Campaldino nel 1289 contro gli aretini ghibellini; in seguito all’esilio probabilmente “è maturato” e ha deciso di schierarsi con la parte ghibellina, scrivendo quindi la Commedia prima e soprattutto la Monarchia poi.
Va ricordato infatti questo: l’esilio colse Dante nell’anno 1302: sia la Commedia (iniziata attorno al 1300) e il De Monarchia (1314) sono posteriori alla data della condanna a morte che lo esiliò da Firenze: inoltre va sottolineato che proprio mentre Dante scrive il De Monarchia è imperatore è Enrico VII, quel famoso “veltro” citato nella Divina Commedia; il veltro è un cane da caccia e secondo la teoria dantesca solo lui avrebbe potuto scacciare le belve (lonza, leone e lupa: rappresentazione allegorica dei vizi umani) che nel canto I dell’Inferno minacciano lo stesso Dante.
Ma qui stiamo entrando in un altro campo, assai ricco ma assai fuori-tema: vorrei chiudere ricordando il tentativo (diciamo pure un semi-colpo di mano) che Dante attuò come capo dell’esercito degli esuli nel 1302, alla guida del signore ghibellino di Forlì, per rientrare a Firenze; tentativo purtroppo fallito.
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