Distinzione codice e territorio 
Causalità alla rovescia senza finalità pag 602 azione del futuro sul presente e del presente sul passato

No gruppi locali villaggi borgate città stati

Si deve notare che l'esortazione doverosa al consumo è una presenza costante nella quotidianità dei consumatori, ciononostante non viene imposta per via diretta, ma viene servita mediante il camuffamento operato dal chiasso delle rèclame.
Scienza e schemi uomo in ritardo assirme alle scienze materialistiche sulla complessità delle relazioni 
La storia si limita a tradurre in successione una coesistenza divenire 
Con la locuzione letto di Procuste o "letto di Damaste", derivata da questo mito, si indica il tentativo di ridurre le persone a un solo modello, un solo modo di pensare e di agire, o più genericamente una situazione difficile e intollerabile o una condizione di spirito tormentosa.
l'uomo deve esistere affinché, mediante il lavoro ed il consumo, possa servire i mezzi di produzione. Tutto ciò perché, nell'era della tecnica, lo scopo degli scopi consiste nel provvedere alla produzione dei mezzi: l'uomo, in accordo con il suo ruolo di pastore del mondo di prodotti ed apparecchi, deve evitare che questi esistano senza l'uso che compete loro.
Gli uomini di Stato da Truman a Kissinger a Carter (e i mass media americani senza eccezione), quando parlano della minaccia della fine (atomica), non la chiamano mai «end of mankind» bensì sempre «end of civilization», dando a intendere che ciò che ai loro occhi in nessun caso deve andare distrutto e in ogni caso deve venir salvato non è l'umanità, con il suo passato e il suo futuro, bensì il mondo dei prodotti e dei mezzi di produzione.36
Voglio dire che noi -- e con «noi» intendo la maggioranza dei nostri contemporanei viventi nei paesi industriali [...]abbiamo rinunciato (o ci siamo lasciati costringere a questa rinuncia) a considerare noi stessi (o le nazioni, o le classi o l'umanità) come i soggetti della storia; ci siamo detronizzati (o lasciati detronizzare) e al nostro posto abbiamo collocato altri soggetti della storia, anzi un solo altro soggetto: la tecnica.28
Dunque, l'uomo moderno vive la situazione in cui gli apparati (sia in senso amministrativo che in senso fisico-tecnico) formano il suo mondo quotidiano. Nella sincronizzazione di uomo e macchina, la tecnica non è più confinata all'interno dei singoli apparecchi, tantomeno negli impianti industriali necessari alla loro produzione. Gli sviluppi dell'era moderna esonerano la tecnica dalla categoria di semplice oggetto in mano all'uomo, rendendola, come si vedrà in seguito, il nuovo soggetto della storia.
unico processo
la tecnica la situazione
Questa nuova idea di mondo replica se stessa e si impone al giudizio, annullando ogni distanza col mondo reale. Il simulacro diviene l'unico mondo di cui l'uomo partecipa, la sola realtà cui quest'ultimo può fare riferimento. Ciò significa che l'uomo è espropriato del proprio mondo, ora fruibile solo sotto forma di fantasma, inoltre, egli viene a trovarsi nell'illusoria condizione dell'assenza di distanza tra sé ed il mondo reale.
Sembrerebbe, dunque, che gli apparecchi siano definitivamente i nuovi mezzi d'interpretazione della realtà ed, in ultima analisi, costituiscano la realtà stessa


Anzitutto è opportuno chiedersi: Come è possibile che eventi così terribili della storia possano essere rimossi dalla memoria? Il motivo è presto detto ed è una somma di molte variabili insite nell'epoca della produzione: l'uomo deve utilizzare i prodotti che vengono continuamente fabbricati, deve farlo incessantemente e senza distinzione. Questo è il grande comandamento dell'era industriale, per la quale qualsiasi riflessione circa gli effetti prodotti dagli oggetti di consumo costituisce un indugio inammissibile. La situazione in cui si trova l'uomo appare paradossale: da una parte, in quanto detentore dei mezzi di produzione, produce la propria distruzione, dall'altra il continuo consumo lo introduce nella dimensione della dimenticanza. L'uomo moderno, dunque, produce due tipi di oblio: quello dell'esistenza e quello della memoria. Ciò avviene perché l'incessante produzione genera l'effetto simile al nastro delle catene di montaggio: nessun operaio può soffermarsi sul prodotto su cui sta lavorando ma può solo lavorare, così come ad ogni consumatore spetta solo il consumo dei prodotti. Entrambi sono esclusi dal pensiero ed assimilati nell'azione finita e chiusa in se stessa.

Al consumo come associato dell'incessante produzione si affianca il fattore ripetibilità. Alla dimenticanza di Auschwitz e Hiroshima, al diluirsi degli eventi nel flusso procedurale, non corrisponde la rimozione del potere tecnologico e non può corrispondervi. L'uomo, quindi, non è in grado di ristabilire la perduta innocenza atomica, ed anche nel momento in cui non possedesse più nessuna testata nucleare, resterebbe intatta l'idea. «In breve: noi siamo incapaci di non potere più ciò che un tempo abbiamo potuto. Dunque ciò che ci manca non è il potere, ma il non-potere»
Gli eventi di Auschwitz e di Hiroshima possono anche essere rimossi dalla memoria (ammesso che vi siano mai penetrati), e questo di fatto è accaduto. Ma, al contrario, non può essere rimossa la loro ripetibilità.3
Gunter Anders

Il «punto di non ritorno» andersiano si ha nel momento in cui i mezzi rendono l'evento replicabile , il riproducibile
Si fa risalire la nascita di questo nuovo ente politico alle associazioni giurate che già da tempo esistevano nel mondo medievale. Il Comune nasce come coniuratio, come, cioè, patto privato all’interno dell’aristocrazia cittadina, che si consorzia per gestire la città secondo i propri interessi di gruppo. I magistrati collegialmente incaricati di governare, i consoli, venivano infatti scelti tra i principali rappresentanti delle famiglie magnatizie. Soltanto dopo un lungo braccio di ferro i ceti emergenti (i popolares), a loro volta organizzati in associazioni professionali (le corporazioni), riuscirono gradualmente a partecipare al governo cittadino. Nelle città più dinamiche erano presenti delle figure politiche titolate boni homines, cioè persone di fiducia che svolgevano particolari commissioni e che decadevano nel momento in cui avevano assolto al loro compito. A seguito delle modificazioni sociali ed economiche dei secoli XI e XII e con lo sviluppo dei traffici commerciali, si avvertì una necessità sempre maggiore di avere delle persone di fiducia, testimoni ed arbitri (bonus stava ad indicare una persona degna di fiducia). È presumibile quindi che l’origine di questa nuova figura sociale sia da ascriversi all’esigenza pressante di organizzare la vita sociale che si andava facendo sempre più articolata e complessa: una magistratura stabile come quella consolare, sia pure a tempo limitato, era necessaria per curare gli interessi cittadini e coordinare l’azione collettiva.


Lo sfruttamento agricolo della pianura mesopotamica crea gradualmente queste condizioni. Dal 3500 a.C. Prende avvio una prima fase di urbanizzazione, che vede la città di Uruk al centro di un'intensa opera di organizzazione del territorio: la ricchezza accumulata con la produzione agricola permette di avviare scambi con altri centri produttori di materie prime e di sostentare una classe di persone che organizzi il potere della città sul territorio circostante (soldati, fabbri, contabili, artigiani, ingegneri). In breve si costituisce una rete di piccole città dipendenti da centri più importanti: gli stessi rapporti gerarchici che si formano all'interno delle città si ricreano fra città e città. I centri urbani s'ingrandiscono e presentano elementi sempre nuovi e differenti. Alte mura difendono gli abitanti e, soprattutto, le riserve di cibo, mentre le zone residenziali si separano dagli edifici centrali (templi e palazzi). Nel palazzo del re sono concentrate le attività direttive: scribi e funzionari registrano il traffico delle merci e organizzano l'attività produttiva e commerciale. La molteplicità delle funzioni direttive fa sì che il palazzo reale rappresenti l'edificio più vasto della città: la sua imponenza serve anche a mostrare la forza e la ricchezza del gruppo dirigente. Talvolta, come nella fase più antica di Uruk, è il tempio (e non il palazzo reale) a ricoprire un ruolo direttivo: riccamente decorato, è costruito di solito in posizione elevata, simbolicamente più vicino agli dèi.

Lo spazio urbano comincia a essere concepito nella sua unitarietà e specificità: la città non è più un insieme casuale di edifici, ma una struttura ordinata. Lo sviluppo delle tecniche architettoniche, ingegneristiche e contabili si accompagna ad uno sviluppo della capacità di “pensare” la città. A questo proposito, è stata ritrovata una tavoletta d'argilla del 3000 a.C. Con la piantina dell'aggregato sumerico di Nippur, dove sono riconoscibili con chiarezza il corso del fiume Eufrate, il tempio ed i canali artificiali. Nella valle dell'Indoil primo centro urbano importante si sviluppa intorno al 2500 a.C.: Mohenjo-daro si presenta come un grande centro amministrativo (la popolazione raggiunse i 40.000 abitanti) dotato di terme, magazzini e fognature. Le abitazioni sono a due piani, spesso con pozzi e bagni privati. È forse la prima città moderna, con una struttura ordinata e soluzioni ingegneristiche d'avanguardia, che ritroveremo solo nei centri romani più grandi e più ricchi (Roma e Pompei) o alcuni millenni dopo: a Parigi il sistema fognario verrà costruito nel 1854 e a Londra nel 1859.
Così il modello urbano e abitativo greco si diffonde su ampia scala (spesso mantenendo precise caratteristiche architettoniche della città madre) influenzando e caratterizzando, secondo una cultura comune, la struttura e il gusto urbano di luoghi lontanissimi fra loro:Pergamo, Alessandria, la Magna Grecia e le coste spagnole.
Allo sviluppo urbano si accompagna una profonda riflessione teorica sul ruolo e sulla funzione politica della città (di cui si occupano i due massimi filosofi Platone e Aristotele) che si ripercuote anche nelle concezioni urbanistiche. L'architetto Ippodamo da Mileto, collaboratore di Pericle, teorizza una città ideale di diecimila uomini, divisa in tre classi (artigiani, agricoltori, difensori) e situata al centro di un territorio suddiviso in tre parti che devono rispettivamente sostentarle. Ippodamo immagina una città costruita secondo un piano preciso, in cui gli isolati, il loro orientamento e anche l'eventuale sviluppo del nucleo urbano sono precisamente regolati. La tradizione lo vuole inventore della città a pianta ortogonale divisa per aree funzionali, come Mileto e Priene. La prima presenta una grande piazza pubblica al centro dell'abitato, circondata dagli edifici amministrativi e contigua all'area dei santuari, e due mercati in prossimità dei porti, uno vicino alla piazza, l'altro all'area sacra. La seconda, disposta su quattro terrazze, unisce allo schema ippodameo il senso scenografico della tipica città dell'Asia minore: le diverse aree funzionali sono disposte su livelli differenti.
Ritroviamo insomma in embrione gli elementi costitutivi di ogni civiltà urbana: diversificazione produttiva (agricoltura, caccia, commercio), presenza di attività specializzate (pittori), valore polifunzionale (nucleo abitativo, santuario, magazzino). Non esiste però ancora una vera concezione dello “spazio urbano”: le case sono costruite l'una sull'altra, mancano le strade, la città non si divide in “zone funzionali” dedicate in modo esclusivo al culto o ai commerci o alla vita comunitaria. Per ritrovare questi elementi bisogna attendere la formazione di una società più complessa.
Un'importante conseguenza del processo di urbanizzazione consiste nella trasformazione dei rapporti sociali tipici della cultura del villaggio basata sui rapporti famigliari ed il lavoro domestico. Si consolida progressivamente una stratificazione sociale che vede al suo apice la classe sacerdotale ed amministrativa poi quella degli artigiani specializzati dei laboratori (maestri e apprendisti) ed infine quella dei contadini (soggetti a tributi e corvée). Il giovane apprendista così si troverà più legato al suo maestro che non al padre e sarà attratto da nuovi stimoli, come la possibilità di carriera. Alla collocazione prestabilita e famigliare dei ruoli nell'economia di villaggio viene sostituita l'affermazione personale. Conseguenza di questo processo sarà anche l'emergere del concetto di proprietà privata e personale che sostituirà progressivamente quello di proprietà famigliare (tutti i membri della famiglia erano parimenti proprietari della terra che costituiva un bene quasi inalienabile). Ancora conseguenza di queste trasformazioni sarà la ricerca del prestigio sociale, che distingue le diverse categorie in base alle loro specializzazioni lavorative. "La società di specialisti diventa automaticamente una società stratificata in classi".[10]
Nella fase del tardo-Uruk il processo di urbanizzazione mostra alcune novità. A fianco dell'originario nucleo templare cittadino comincia a svilupparsi un polo laico palatino. Prosegue la specializzazione artigianale, come testimoniano le numerose e dettagliate liste di professioni rinvenute negli archivi templari. Si nota anche una progressiva standardizzazione dei manufatti: la ceramica viene prodotta al tornio o anche a stampo; anche la metallurgia adotta la tecnica a stampo; la tessitura passa dal contesto domestico a quello dei laboratori templari, che impiegano fondamentalmente mano d'opera composta di donne e di minori
Queste abitazioni non vanno pensate come santuari: il culto è ancora solo domestico e dà conto di una "ossessione simbolica", quella di un aggregato di umani che vivono a stretto contatto con i propri morti e che ha da tempo istintivamente associato penetrazione sessuale e sepoltura dei semi per l'agricoltura.[7] Gli abitanti della città di Çatalhöyük seppellivano i propri morti, divisi per sesso, sotto il letto. Questi, prima di essere sistemati sotto i letti, venivano esposti all'aperto in attesa che gli avvoltoi procedessero ad una completa escarnazione, con lo stesso sistema usato ancora oggi in India ed in Persia, dove i cadaveri sono depositati nelle cosiddetteTorri del Silenzio.[8]





Da una parte le prime comunità di contadini che sembra si basassero su un'agricoltura di sussistenza supportata da un'intensa irrigazione. Questi derivavano dalla civiltà di Samarra a nord, caratterizzata dalla costruzione di canali e di edifici con mattoni di fango.

La cultura dei pescatori-cacciatori del litorale arabo, installata in capanne di canne.

La terza cultura che contribuì ad erigere la città di Eridu fu quella dei pastori nomadi di greggi di pecore e capre, che vivevano in tende nelle zone semideserte.




Tutte e tre le culture sembrano implicate nei primi sviluppi della città. Lo stabilimento urbano si concentrava attorno ad un imponente complesso templare costruito in mattoni, all'interno di una piccola depressione che permetteva all'acqua di accumularsi.

Negli strati più antichi di Eridu (strati 17-15, appartenenti alla fase detta appunto "di Eridu", ca. 5000 a.C.) è stata rintracciata un'importante novità in ambito urbanistico: è infatti qui che si hanno le prime evidenze di una sistemazione apposita, in spazi dedicati, dell'attività cultuale. Si tratta di piccoli edifici, di "cappelle", un inizio modesto ma certamente rivoluzionario rispetto alla tipologia abitativa, ad esempio, di Çatalhöyük, dove il culto veniva effettuato dentro le abitazioni private, caratterizzandosi come culto "familiare".[3]




Nella fase di Ubaid si va dunque verso una centralizzazione del potere e una stratificazione sociale: si assiste alla nascita di manodopera specializzata che aveva bisogno di una committenza istituzionale che la mantenesse.

Il tempio diviene l'edificio centrale, intorno al quale ruotano le funzioni di coordinamento, di guida della società e di accumulo del surplus alimentare.
. È però nelle zone di maggiore concentrazione della materia prima
Trovarsi in adiacenza di una macchina
« Se voi Persiani non diverrete uccelli per volare via nel cielo o non diverrete topi per nascondervi sotto terra o non diverrete rane per saltare nelle paludi, non tornerete nel vostro paese, ma sarete trafitti da queste frecce. »
Il primo centro urbano di cui restano tracce consistenti è Çatalhöyük, nell'odierna Turchia (6000 a.C.): un agglomerato ordinato di piccole case in mattoni che ricopre un'intera collina. I vicini giacimenti di ossidiana (una roccia vulcanica usata fin dalla Preistoria per oggetti appuntiti o taglienti) fanno pensare che la cittadina controllasse l'estrazione e la lavorazione di questa sostanza. Pitture e rilievi murali ci restituiscono aspetti importanti della cultura degli abitanti: cacciatori, avvolti in pelli di leopardo, inseguono le loro prede; enormi avvoltoi si cibano delle teste dei cadaveri; imponenti leopardi stilizzati dominano le pareti, proteggendo così la città e propiziando la caccia; complesse e coloratissime decorazioni geometriche abbelliscono gli interni. Ritroviamo insomma in embrione gli elementi costitutivi di ogni civiltà urbana: diversificazione produttiva (agricoltura, caccia,commercio), presenza di attività specializzate (pittori), valore polifunzionale (nucleo abitativo, santuario, magazzino). Non esiste però ancora una vera concezione dello “spazio urbano”: le case sono costruite l'una sull'altra, mancano le strade, la città non si divide in “zone funzionali” dedicate in modo esclusivo al culto o ai commerci o alla vita comunitaria. Per ritrovare questi elementi bisogna attendere la formazione di una società più complessa.
Quindi, con la rinascita delle città nell'XI secolo e la ripresa delle attività artigianali, i nuovi ceti urbani si riunirono per liberarsi dai vincoli feudali e dall'autorità imperiale, creando una nuova realtà politica: il Comune. Fu inevitabile che molte città cominciassero a svilupparsi come organismi autonomi, ponendo sotto il proprio controllo le campagne circostanti: questi nuovi organismi politici prendono il nome di Comuni, per l'appunto, e consistono in vere e proprie città-Stato, con leggi e magistrature indipendenti dalla soggezione ai grandi feudatari. In teoria, peraltro, le città non potevano essere del tutto autonome, poiché erano soggette a organismi più vasti: o appartenevano ai grandi feudatari o erano sotto il diretto controllo del re o dell'imperatore. Ma in pratica in alcune zone dell'Europa, come nelle Fiandre o nel nord-Italia, il potere dell'Impero era debole e proprio in queste zone l'istituzione comunale poté svilupparsi.
L'incremento demografico dell'anno Mille portò alla formazione di nuovi centri urbani e alla rinascita di quelli esistenti. Così, la città tornava a essere, come nell'antichità, il centro propulsore della società civile. All'interno delle mura vennero a convivere uomini di estrazione sociale molto diversa: contadini inurbati in seguito all'eccedenza di manodopera nei campi, feudatari minori che cercavano di sottrarsi ai vincoli verso i grandi feudatari trasferendosi in città, oltre che notai, giudici, medici, piccoli artigiani e mercanti. Questi costituivano per eccellenza la classe dei "borghesi", vale a dire di coloro che, non essendo nobili, traevano la propria prosperità dall'esercizio di arti o mestieri, avendo nella città il loro ambiente naturale.


La pretesa di atteggiarsi come eredi dei romani, sebbene giuridicamente discutibile, ebbe però alcuni innegabili risultati positivi, come il ripristino del diritto romano già a partire dalla metà del XII secolo, che, tramite l'attività delle università, tornò in Occidente sostituendosi in tutto o in massima parte alle legislazioni germaniche, in vigore dai tempi delle invasioni, e a quelle canonistiche, diffuse dalle istituzioni ecclesiastiche.

In definitiva quindi, nonostante una partenza velata da equivoci e atti forzosi, il Sacro Romano Impero divenne uno dei cardini della società europea, che profondamente ne influenzò le vicende per secoli.
Re Tedesco. L'incoronazione come imperatore di Carlo Magno per mano del Papa nell'800 costituì l'esempio che i Re successivi avrebbero seguito: questo gesto fu la conseguenza della difesa del Papa da parte di Carlo contro la ribellione degli abitanti di Roma. Da questo episodio ebbe origine il concetto che l'Impero fosse il difensore dellaChiesa.
La loro sovranità veniva esercitata non solo con il governo indipendente dei propri stati con l'organizzazione di una propria amministrazione, un esercito, il diritto di legiferare o di coniare monete proprie, ma anche nei rapporti internazionali con l'invio di proprie rappresentanze presso le altre corti, nel tessere rapporti diplomatici nello stipulare accordi commerciali o militari. L'unica condizione che continuava a legare gli stati tedeschi all'impero era la libertà di stipulare alleanze che, comunque, non fossero di danno all'impero medesimo. Così si arrivò al paradosso che potevano essere fatte alleanze militari contro l'imperatore (quale titolare degli stati Asburgici, e quindi paragonato ad ogni altro sovrano), ma non contro gli interessi dell'impero, per il quale si poteva perdere il proprio Stato, come feudo imperiale, con l'accusa di "fellonìa", come fu nel caso di alcuni feudi imperiali italiani (ducato di Mantova e ducato della Mirandola nel 1708).
Dante, nel VI canto del Paradiso prega i Ghibellini, e probabilmente si riferisce a quelli di Firenze, a far «lor'arte sot-t'altro segno» che non sia l'aquila imperiale, un simbolo grandioso e sacro dietro cui invece ormai si nascondevano per lo più solo interessi di poche e sfortunate famiglie fiorentine esuli.
Resta il dubbio sul motivo per cui i Ghibellini fiorentini avessero scelto di rappresentare la morte del Leone. Secondo alcune ipotesi, per simboleggiare la fine della Firenze popolare e filoguelfa; secondo altre, rappresentava la vittoria del Bene sul Male poiché spesso l'animale è divenuto simbolo di superbia, ferocia e forza incontrollata, in Dante[50] come nel Vecchio e nel Nuovo Testamento.
Ma l'Aquila, per dirla con Dante, era il "pubblico segno", "il sacrosanto segno" dell'Impero e, pertanto, l'Aquila rappresentata nell'atto di artigliare il Drago risulta essere un'appropriazione pontificia del simbolo peculiare dell'Impero.
Firenze, ormai stabilmente guelfa, risultava comunque divisa in due fazioni: i Bianchi, riuniti intorno alla famiglia dei Cerchi, fautori di una moderata politica filo papale, che riuscirono a governare dal 1300 al 1301; e i Neri, il gruppo dell'aristocrazia finanziaria e commerciale più strettamente legato agli interessi della chiesa, capeggiato dai Donati, che salirono al potere con l'aiuto di Carlo di Valois, inviato dal papa Bonifacio VIII.
L'istituzione del Priorato, determinata in parte dal declino della potenza angioina in Italia, ma soprattutto dall'emergere in Firenze di un nuovo ceto, espressione della parte più attiva del mondo mercantile, era la logica conclusione di un processo che, iniziato con la pace del cardinale Latino, aveva visto un lento spostamento all'interno della classe dirigente a favore della grande "borghesia" mercantile e artigiana. I mercanti, gli artigiani maggiori, avevano il vantaggio rispetto ai grandi di essere meno divisi politicamente, poiché se è vero che esistevano mercanti di tendenza guelfa e mercanti di tendenza ghibellina, il comune interesse commerciale e la consapevolezza di rappresentare il ceto produttivo della città, rendevano ormai superati i contrasti di partito. In questo senso essi rappresentavano una classe, sia pure dai confini non troppo rigidi, di fronte al discorde blocco delle grandi famiglie.


La convivenza forzata tra i vecchi nemici, d'altra parte, indeboliva in generale la classe più alta della popolazione a favore del ceto più produttivo. Si stava dunque attuando progressivamente non solo una profonda trasformazione istituzionale, ma, di pari passo, un ricambio all'interno della classe dirigente.
Palazzo Mozzi

Il significato della pace del cardinale Latino stava nella vittoria di quella politica papale antiangioina che, iniziatasi con Gregorio X, si era potuta concludere con il Pontificato di Niccolò III, che aveva saputo barcamenarsi tra le opposte forze di Carlo d'Angiò e del nuovo imperatore Rodolfo d'Asburgo. Sul piano interno questo si traduceva in una sostanziale diminuzione di potere per i seguaci fiorentini di Carlo d'Angiò, che rappresentavano il guelfismo intransigente e facevano capo alla famiglia dei Donati.[34] In quel periodo ebbero particolare influenza certe famiglie dell'alto ceto mercantile come i Mozzi[35], che favorirono i trattati di pacificazione e quindi il ritorno dei ghibellini.

Il momento era dunque favorevole per l'attuazione del nuovo mutamento costituzionale, che seguiva di poco un altro rivolgimento di rilevanza internazionale: i Vespri Siciliani. Il 30 marzo 1282 infatti, scoppiò a Palermo un tumulto che liberava la Sicilia dai francesi, mettendo in crisi la potenza angioina in Italia.
Dopo la pace del gennaio - febbraio 1280, infatti, cominciò un periodo di transizione che terminò con l'istituzione del Priorato. Il nuovo ordine costituzionale istituito dal cardinale paciere, basato su una teorica pariteticità tra Guelfi e Ghibellini, se da una parte contribuì in maniera notevole ad incrinare l'indiscussa egemonia della parte guelfa che aveva dominato il Comune nei tredici anni precedenti, dall'altra favorì all'interno della città la formazione di un nuovo ceto sociale. L'obiettivo del cardinale e quindi del Papa Niccolò III era quello di instaurare un nuovo e stabile equilibrio di potere, che trovò la sua espressione nella Magistratura dei XIV, aperta ad entrambe le opposte fazioni e all'elemento popolare, e nell'ufficio del Capitano Conservatore della Pace, che aveva il compito di mantenere l'ordine così faticosamente raggiunto. Si volevano eliminare, una volta per sempre, abolendo tutte le organizzazioni di parte, gli antichi rancori e le antiche divisioni che avevano costituito gran parte della storia interna della città fino ad allora. La pace però era solo fittizia e diversi fattori contribuirono a vanificarla: le organizzazioni di parte, ad esempio, e soprattutto la parte guelfa restarono meno potenti politicamente, ma pur sempre influenti. I Ghibellini riuscirono così, dopo molti anni di esilio, a rientrare in una città che aveva ormai preso un indirizzo guelfo, soprattutto nel suo settore più vitale, quello dei commerci.[33]


Fu cruciale per la storia europea l'atto, giuridicamente illegittimo, dell'incoronazione regale con legittimazione papale (fino ad allora i re erano stati solo benedetti dal papa, mentre lo status giuridico a regnare doveva provenire dall'unico erede dell'Impero romano, il sovrano bizantino). Sia Pipino stava usurpando un titolo di sovrano "sacrale" verso i Germani, sia il papa si stava arrogando un potere di legittimazione che non aveva fondamento giuridico definito. Ma nella pratica la sacralità del papa compensò la fine della sacralità della dinastia merovingia, inoltre la presenza di un imperatore "eretico" (iconoclasta) come Leone III sul trono di Bisanzio causava un vuoto di potere che il papa aveva già manifestato di volersi arrogare (nacque proprio in quegli anni il documento apocrifo della Donazione di Costantino).[56].


Tra questi il più antico fu senz'altro lo storico greco Polibio, che nelle sue Storie dice:

« Quella superstizione religiosa che presso gli altri uomini è oggetto di biasimo, serve in Roma a mantenere unito lo Stato: la religione è più profondamente radicata e le cerimonie pubbliche e private sono celebrate con maggior pompa che presso ogni altro popolo. Ciò potrebbe suscitare la meraviglia di molti; a me sembra che i Romani abbiano istituito questi usi pensando alla natura del volgo. In una nazione formata da soli sapienti, sarebbe infatti inutile ricorrere a mezzi come questi, ma poiché la moltitudine è per sua natura volubile e soggiace a passioni di ogni genere, a sfrenata avidità, ad ira violenta, non c'è che trattenerla con siffatti apparati e con misteriosi timori. Sono per questo del parere che gli antichi non abbiano introdotto senza ragione presso le moltitudini la fede religiosa e le superstizioni sull'Ade, ma che piuttosto siano stolti coloro che cercano di eliminarle ai nostri giorni.[2] »
All'origine della guerra dei trent'anni può collocarsi il desiderio dei prìncipi tedeschi di porre definitivamente un freno alle aspirazioni restauratrici del nuovo imperatore asburgico, aspirazioni sostenute dalla Spagna. Tra le pretese dell'imperatore vi era, infatti, quella di privare i principi tedeschi del diritto a determinare la religione dei propri regni, sancito dalla pace di Augusta nel 1555, secondo il principio del "cuius regio, eius religio".


Nel natale dell'800 l'imperatore dei Franchi Carlo Magno venne incoronato "Imperatore dei Romani" dal Papa Leone III. In seguito Ottone I di Sassonia, nel X secolo, trasformò una parte del vecchio impero carolingio nel Sacro Romano Impero. I Sacri Romani Imperatori si consideravano, come i bizantini, i successori dell'Impero romano, grazie all'incoronazione papale, anche se da un punto di vista strettamente giuridico l'incoronazione non aveva basi nel diritto di allora. I bizantini erano, però, governati allora dall'Imperatrice Irene, illegittima agli occhi degli occidentali[58]. Inoltre Bisanzio non aveva alcun mezzo militare, né un reale interesse, per far valere le proprie ragioni.

Il Sacro Romano Impero conobbe il suo periodo di massimo splendore nell'XI secolo quando insieme al Papato era una delle due grandi potenze della società medioevale. Già sotto Federico Barbarossa e le vittorie dei Comuni l'Impero iniziò a declinare, perdendo il reale controllo del territorio, soprattutto in Italia, in favore delle varie autonomie locali. Comuni, signori e principati comunque continuarono a vedere l'Impero come un sacro ente sovrannazionale dal quale trarre legittimità formale del proprio potere, come testimoniano i numerosi diplomi imperiali concessi a caro prezzo. Nella sostanza, però, l'Imperatore non aveva alcun'autorità e la sua carica, se non ricoperta da individui di particolare forza e determinazione, era puramente simbolica.

Nel 1648 con la Pace di Vestfalia i principi feudali divennero praticamente indipendenti dall'Imperatore e il Sacro Romano Impero si ridusse a una semplice confederazione di Stati solo formalmente uniti, ma de facto indipendenti. Esso continuò comunque a esistere formalmente fino al 1806, quando l'imperatore franceseNapoleone Bonaparte obbligò l'Imperatore Francesco II a sciogliere il Sacro Romano Impero e a diventare imperatore d'Austria.

Voltaire si prese gioco del Sacro Romano Impero con la celebre affermazione secondo cui non era «né sacro, né romano, né un impero».
Maometto II stabilì nella città la propria capitale e si proclamò Imperatore romano. Maometto II compì anche un tentativo di impossessarsi dell'Italia in modo da "riunificare l'impero", ma gli eserciti papali e napoletani fermarono l'avanzata turca verso Roma a Otranto nel 1480. Il terzo a proclamarsi erede dell'Impero dei Cesari fu l'Impero russo, che nel XVI secolo ribattezzò Mosca, centro del potere zarista, la "Terza Roma" (essendo Costantinopoli considerata la seconda).
Il regno fu l'unica istituzione politica nuova elaborata dagli invasori, anche se ci furono importanti differenze all'interno dei popoli germanici. Schematizzando si può dire che il regno barbarico non conobbe la separazione dei poteri, concentrati tutti nelle mani del re che li aveva acquisiti per diritto di conquista, al punto che la cosa pubblica tendeva a confondersi con la sua proprietà personale e la stessa nozione di regno con la persona di chi esercitava il potere politico e assicurava la protezione militare dei sudditi, dai quali esigeva in cambio fedeltà. La monarchia dei popoli barbarici non fu territoriale bensì nazionale, ossia rappresentò chi era nato nella stessa tribù.
Quelli dei Visigoti in Spagna e dei Franchi nelle ex province galliche invece sopravvissero, sia per la rapida integrazione tra la popolazione residente e gli invasori, sia per la collaborazione con la Chiesa e con esponenti del mondo intellettuale latino.


Il ruolo del cristianesimo nell'aver partecipato - non determinato - al collasso dell'impero d'Occidente, dovrebbe essere oggi rivalutato, ponendo particolare attenzione: 1) alla disgregazione economica-sociale accelerata da donne e uomini di alto lignaggio (Priscilliano, le due Melanie, Paola...) che, abbandonando il secolo, vendettero intere proprietà; 2) ai contrasti tra funzionari imperiali e vescovi (ad esempio Oreste e Cirillo), e anche tra imperatori e vescovi (Giustina e Ambrogio); 3) agli ideali evangelici che spinsero gli uomini a fuggire il secolo (monaci), che spinsero le donne alla verginità, e quindi al calo della natalità, e a considerare il mondo un pellegrinaggio temporaneo (Agostino) e quindi, sostanzialmente, privo di importanza. Un ottimo campo di indagine per capire la forza corrosiva del cristianesimo è quello delle leggi di Maggiorano (una delle più famose proibì alle donne di farsi monache prima dei 40 anni, poiché, e l'imperatore lo aveva ben capito, questo stava causando una diminuzione delle nascite, in un momento in cui Roma aveva bisogno di tutte le spade possibili).
Decadenza del Mos maiorum e dispotismo[modifica | modifica wikitesto]

Anche la corruzione e l'abbandono degli antichi costumi repubblicani, che avevano reso grande Roma, oltre al dispotismo degli imperatori, ebbero un notevole influsso, secondo alcuni storici, sul declino e la caduta finale di Roma. Secondo Montesquieu ed altri storici, a causa dell'influenza dei molli e corrotti costumi orientali, la società romana finì per abbandonare le tradizionali virtù repubblicane che avevano contribuito all'espansionismo e alla solidità dell'Impero. Le prime avvisaglie della decadenza, quindi, si sarebbero avute già nel I secolo d.C., con la tirannia di imperatori come Nerone, Caligola, Commodo e Domiziano. Una visione che la storiografia romana di ideologia repubblicana, vicina al Senato o tradizionalista (Publio Cornelio Tacito, Cassio Dione Cocceiano, Ammiano Marcellino), aveva interesse a diffondere. Tuttavia, anche in questo caso non si spiega perché il dispotico e greco-orientale Impero bizantino riuscì a resistere benissimo alle invasioni barbariche, a differenza dell'Impero d'Occidente.[45]
Sembra potersi dire, quindi, che nell'insieme i cristiani non combatterono i barbari (a differenza che in Oriente, dove il Cristianesimo costituì qualche cosa di simile a un movimento nazionale che si opponeva decisamente ai barbari), ma nemmeno sabotarono l'Impero


La storiografia del XIX e del XX secolo ha posto l'accento, invece, sulle profonde questioni di tipo economico-sociale che dal III secolo in poi portarono al progressivo declino della produzione agricola, alla crisi dei commerci e delle città, alla degenerazione burocratica ed alle profonde disuguaglianze sociali, facendo perdere ricchezza e coesione interna all'Impero romano, in particolare alla pars occidentalis, fino alla sua caduta finale nel V secolo. Fu la crisi economico-sociale, insomma, che alla lunga finì per indebolire fatalmente la struttura politico-militare dell'Impero romano d'Occidente, che, già dilaniato dalle guerre intestine (vedi sopra) e devastato da frequenti carestie ed epidemie (allo stesso tempo causa e conseguenza della crisi economica e dell'instabilità politica), alla fine non seppe più resistere con successo alle invasioni barbariche provenienti dall'esterno.

Secondo gli storici di scuola marxista, come Friedrich Engels, l'Impero romano cadde quando il modo di produzione schiavistico, non più alimentato dalle grandi guerre di conquista, cedette il passo al sistema economico feudale basato sul colonato e quindi sulla signoria fondiaria e sulla servitù della gleba tipiche dell'economia curtense del Medioevo.

L'economista e sociologo Max Weber sottolineò la regressione dall'economia monetaria all'economia naturale, conseguenza della svalutazione monetaria, dell'inflazione galoppante e della crisi dei commerci dovuta anche alla stagnazione produttiva ed alla crescente insicurezza dei traffici.

Per lo storico russo Mikhail Rostovtsev fu la ribellione delle masse contadine (fuga dalle campagne) alle élite cittadine a determinare la perdita della coesione sociale interna.

Per altri storici ancora, infine, fu la degenerazione burocratica, caratterizzata dall'endemica corruzione e dall'eccessivo peso fiscale sui ceti medi, a produrre quella profonda frattura sociale tra una ristretta casta di privilegiati (aristocratici latifondisti e vertici della gerarchia burocratica e militare) che vivevano nel lusso estremo e la grande massa dei contadini e dei proletari urbani costretti alla quotidiana sopravvivenza, che alla fine fece perdere all'Impero la compattezza necessaria per evitare il crollo del V secolo.




Inoltre, i ceti inferiori - oppressi dal fiscalismo tardo-imperiale - appoggiarono gli invasori barbari


Oltre alle invasioni germaniche del V secolo e all'importanza sempre più incisiva dell'elemento barbarico nell'esercito romano, sono stati individuati anche altri aspetti per spiegare la lunga crisi e la caduta finale dell'Impero romano d'Occidente:
il calo demografico dovuto non solo alle guerre ed alle carestie, ma anche alle epidemie che si diffondevano molto velocemente e causavano numerose vittime;
la crisi economico-produttiva delle campagne unita al crollo dei traffici commerciali, all'inflazione galoppante e, quindi, al ritorno ai pagamenti in natura;
la crisi e la fuga dalle città, a rischio non solo di saccheggio da parte degli eserciti barbarici, ma anche di malattie infettive per le disastrose condizioni igieniche;
la perdita di coesione sociale, dovuta all'enorme squilibrio nella distribuzione della ricchezza: lusso eccessivo per pochissimi privilegiati e povertà estrema per la grande massa dei contadini e del proletariato urbano;
la mancanza di consenso nei confronti del governo centrale, causata anche dalla degenerazione burocratica: da una parte corruzione sistematica, dall'altra eccessivo peso fiscale che finiva per gravare sui ceti meno abbienti;
i difetti del sistema costituzionale, con il governo centrale condizionato dallo strapotere dell'esercito e sempre a rischio di usurpazione.

Il 476, anno dell'acclamazione di Odoacre re, fu quindi preso a simbolo della caduta dell'Impero romano d'Occidente semplicemente perché da quel momento in poi, per oltre tre secoli fino a Carlo Magno, non vi furono più imperatori d'Occidente, mentre l'Impero romano d'Oriente, dopo la caduta dell'Occidente, si trasformò profondamente, divenendo sempre più greco-orientale e sempre meno romano.
Quel che è certo è che l'Impero già prima del 476 si presentava rispetto ai secoli precedenti molto menoromanizzato e sempre più caratterizzato da una impronta germanica, soprattutto nell'esercito, che costituiva l'asse portante del potere imperiale. Anche se l'Occidente romano crollò sotto l'invasione dei Visigoti all'inizio del V secolo, il rovesciamento dell'ultimo imperatore, Romolo Augusto, non fu compiuto da truppe straniere, ma piuttosto da foederati germanici organici all'esercito romano. In questo senso, se non avesse rinunciato Odoacre al titolo di imperatore per dichiararsi invece Rex Italiae e "patrizio" dell'imperatore d'Oriente, l'impero avrebbe potuto perfino dirsi conservato, almeno nel nome, se non nella sua identità, da tempo profondamente mutata: non più esclusivamente romana e sempre più condizionata dalle popolazioni germaniche, che già prima del 476 si erano ritagliate ampi spazi di potere nell'esercito imperiale e di dominio in territori ormai solo formalmente soggetti all'imperatore. Nel V secolo, infatti, i popoli di ascendenza romana erano ormai stati "privati del loro ethos militare"[3], in quanto lo stesso esercito romano non era altro che un coacervo di truppe federate di Goti, Unni, Franchi e altri popoli barbarici che combattevano nel nome della gloria di Roma.
inì per chiudere la fase movimentista del cristianesimo trascendente e aprire quella del cristianesimo politicamente trionfante


Benché dopo la sconfitta di Licinio il cristianesimo di Costantino trovi sempre più conferme pubbliche, occorre non dimenticare che: «Mentre egli e sua madre abbelliscono la Palestina e le grandi città dell'impero di sfarzosissime chiese, nella nuova Costantinopoli egli fa costruire anche dei templi pagani. Due di questi, quello della Madre degli dèi e quello dei Dioscuri, possono essere stati semplici edifici decorativi destinati a contenere le statue collocatevi come opere d'arte, ma il tempio e la statua di Tyche, personificazione divinizzata della città, dovevano essere oggetto di un vero e proprio culto».[58]

Probabilmente il progetto politico di Costantino di tollerare il Cristianesimo, se non frutto di una conversione personale autentica, nacque dalla presa d'atto del fallimento della persecuzione contro i cristiani scatenata da Diocleziano. La sconfitta così clamorosa di Diocleziano aveva dovuto persuadere Costantino che l'Impero aveva bisogno di una nuova base morale che la religione tradizionale era incapace di offrirgli. Bisognava, quindi, trasformare la forza potenzialmente disgregante delle comunità cristiane, dotate di grandi capacità organizzative oltre che di grande entusiasmo, in una forza di coesione per l'Impero. Questo è il senso profondo della svolta costantiniana, che finì per chiudere la fase movimentista del cristianesimo trascendente e aprire quella del cristianesimo politicamente trionfante. Dal 313 in poi i cristiani furono inseriti sempre di più nei gangli vitali del potere imperiale. Inoltre, alla Chiesa cristiana, già alimentata cospicuamente dal flusso delle contribuzioni spontanee dei fedeli, furono concesse numerose esenzioni e privilegi fiscali, moltiplicandone la ricchezza. Dopo l'esercito, la Chiesa cristiana grazie a Costantino stava diventando il secondo pilastro dell'Impero.[59]


In questo senso si spiegano sia l'editto imperiale di tolleranza o l'editto di Milano del 313 (conferma rafforzata di un editto di Galerio del 30 aprile 311), sia l'iscrizione sull'arco di Costantino: entrambi citano una generica "divinità", che poteva dunque essere identificata sia con il Dio cristiano, sia con il dio solare. L'ambiguità dell'Editto di Milano, però, è ovvia, dato che esso fu proclamato dal pagano Licinio.

Costantino perseguiva probabilmente il proposito di riavvicinare i culti presenti nell'impero, nel quadro di un non troppo definito monoteismo imperiale. Le festività religiose più importanti del cristianesimo e della religione solare furono fatte coincidere. Il giorno natale del Sole e del dio Mitra, il 25 dicembre, divenne anche quello della nascita di Gesù. Le statue del dio Sole erano spesso adornate del simbolo della Croce, ma a Costantinopoli furono eretti anche dei templi pagani.
zecca di Londinium (Londra)

Costantino e il cristianesimo[modifica | modifica wikitesto]
Icona ortodossa bulgara con l'imperatore e la madreElena e la "vera croce".

Il comportamento costantiniano in tema di religione ha dato spazio a molte controversie fra gli storici; controversie particolarmente aspre quando essi hanno preteso di valutare non solo il comportamento pubblico, ma le stesse convinzioni interiori. In alternativa all'opinione tradizionale, secondo cui Costantino si sarebbe convertito al cristianesimo poco prima della battaglia di Ponte Milvio, è stata, invece, asserita una sua costante adesione al culto solare, mettendo in dubbio perfino il battesimo in punto di morte. Secondo altri, poi, la religione sarebbe stata per Costantino un puro e semplice instrumentum regni. Lo storico svizzero Jacob Burckhardt, per esempio, afferma: «Nel caso di un uomo geniale, al quale l'ambizione e la sete di dominio non concedono un'ora di tregua, non si può parlare di cristianesimo o paganesimo, di religiosità o irreligiosità consapevoli: un uomo simile è essenzialmente areligioso, e lo sarebbe anche se egli immaginasse di far parte integrante di una comunità religiosa»[51]. Secondo altri ancora, poi, occorre distinguere fra convinzioni private e comportamento pubblico, vincolato dalla necessità di conservare il consenso delle proprie truppe (se non dei propri sudditi), qualunque ne fosse l'orientamento religioso. Da questo punto di vista è utile distinguere fra il comportamento di Costantino antecedente e quello successivo allabattaglia di Crisopoli, grazie alla quale conseguì il dominio assoluto sull'impero.

Che Costantino si sia progressivamente avvicinato al cristianesimo sono comunque d'accordo molti conoscitori di quell'epoca[52]. Tra costoro il grande archeologo e storico Paul Veyne, di estrazione marxista sostiene con sicurezza l'autenticità della conversione di Costantino, ricordando, con J.B. Bury, che la sua «rivoluzione [...] fu forse l'atto più audace mai compiuto da un autocrate in ispregio alla grande maggioranza dei suoi sudditi». E ciò in considerazione del fatto che la popolazione cristiana era circa il 10% del totale nel futuro Impero Romano d'Occidente.

Paul Veyne ha inoltre proposto una interessante teoria per tentare di spiegare in modo razionale il fenomeno leggendario della visione che potrebbe aver spinto Costantino a una conversione solo apparentemente improvvisa. L'eminente studioso ipotizza che un sogno abbia potuto avere azione catalitica su di un terreno psicologico predisposto da esperienze e suggestioni vissute precedentemente[53].

È comunque assolutamente fuori di dubbio la sincerità costantiniana nella ricerca dell'unità e concordia della Chiesa, la cui necessità derivava da un preciso disegno politico che considerava l'unità del mondo cristiano condizione indispensabile alla stabilità della potenza imperiale. Costantino infatti interpretava in senso cristiano l'antico tema, caro alla Roma imperale pagana, della pax deorum, nel senso che la forza dell'impero non derivava semplicemente dalle azioni di un principe illuminato, da una saggia amministrazione e dall'efficienza di un ben strutturato e disciplinato esercito, ma direttamente dalla benevolenza di Dio. Mentre però, nella religione romana, vi era un diretto rapporto tra il potere imperiale e le divinità, l'imperatore cristiano non poteva ignorare la Chiesa, un'istituzione che, tramite i suoi vescovi, era l'unica mediatrice della fonte divina del potere, e Costantino non poteva fare a meno di essere coinvolto nelle lotte teologiche della Chiesa. Su una tale base ideologica, questa ricerca dell'unità e della concordia dei cristiani comportava quindi anche interventi molto duri nei confronti di coloro che lo stesso imperatore considerava eretici, che erano trattati come, se non più duramente, dei pagani. I conflitti teologici si trovarono dunque ad avere una ricaduta politica, mentre d'altra parte le sorti interne dell'Impero erano sempre più dipendenti dai risultati delle lotte teologiche; gli stessi vescovi, infatti, sollecitavano continuamente l'intervento dell'imperatore per la corretta applicazione delle decisioni dei concili, per la convocazione dei sinodi e anche per la definizione di controversie teologiche: ogni successo di una fazione comportava la deposizione e l'esilio dei capi della fazione opposta, con i metodi tipici della lotta politica[54].







Il contesto religioso[modifica | modifica wikitesto]

Nel III secolo la religione pagana si era fortemente trasformata: sulla spinta della insicurezza dei tempi e dell'influsso dei culti di origine orientale, le sue caratteristiche pubbliche e ritualistiche avevano sempre più perso di significato di fronte a una più intensa e personale spiritualità. Si era andato diffondendo un sincretismo venato dimonoteismo e si tendeva a vedere nelle immagini degli dei tradizionali l'espressione di un unico essere divino.

Una forma politica a questa aspirazione sincretistica fu data dall'imperatore Aureliano (275), con l'istituzione del culto ufficiale del Sol Invictus ("Sole Invitto"), con elementi del mitraismo e di altri culti solari di origine orientale. Il culto era diffuso nell'esercito, soprattutto nell'occidente, e a esso non furono estranei né Costanzo Cloro, il padre di Costantino, né Costantino stesso.[55]

Costantino fu certamente il primo a comprendere l'importanza della nuova religione cristiana per rafforzare la coesione culturale e politica dell'impero romano.
Lo storico svizzero Jacob Burckhardt, per esempio, afferma: «Nel caso di un uomo geniale, al quale l'ambizione e la sete di dominio non concedono un'ora di tregua, non si può parlare di cristianesimo o paganesimo, di religiosità o irreligiosità consapevoli: un uomo simile è essenzialmente areligioso, e lo sarebbe anche se egli immaginasse di far parte integrante di una comunità religiosa»[51]. Secondo altri ancora, poi, occorre distinguere fra convinzioni private e comportamento pubblico, vincolato dalla necessità di conservare il consenso delle proprie truppe (se non dei propri sudditi), qualunque ne fosse l'orientamento religioso. Da questo punto di vista è utile distinguere fra il comportamento di Costantino antecedente e quello successivo allabattaglia di Crisopoli, grazie alla quale conseguì il dominio assoluto sull'impero.


Costantino emise nuovi editti in favore dei cristiani. Obiettivo della politica religiosa dell'imperatore fu di «far confluire in un'unica forma e idea le credenze religiose di tutti i popoli», e poi «di rivitalizzare e riequilibrare l'intero corpo dell'Impero, che giaceva in rovina come per l'effetto di una grave ferita».[11] Per questo Costantino scelse come interlocutrice la Chiesa “cattolica”, cioè universale, avente come suo scopo primario il mantenimento della comunione con le altre comunità cristiane.[12]
Costantino si sarebbe convertito al cristianesimo poco prima della battaglia di Ponte Milvio, è stata, invece, asserita una sua costante adesione al culto solare, mettendo in dubbio perfino il battesimo in punto di morte
L'opposizione alle immagini religiose era già diventata piuttosto diffusa nelle regioni orientali, influenzate dalla vicinanza con i musulmani, che vietavano l'adorazione delle icone.[18] Secondo Teofane l'Imperatore fu convinto ad adottare la sua politica iconoclastica (distruzione delle icone) da un tal Bezér, un cristiano che, fatto schiavo dai musulmani, rinnegò la fede cristiana per passare a quella dei suoi padroni, e che, una volta liberato e trasferitosi a Bisanzio, riuscì a indurre nell'eresia l'Imperatore.

Rinascita carolingia[modifica | modifica wikitesto]
Lo stesso argomento in dettaglio: Rinascita carolingia.


Per “Rinascita carolingia” si intende la fioritura che si ebbe durante il regno di Carlo Magno in ambito politico, culturale, e soprattutto educativo. La situazione in campo intellettuale e religioso al momento dell'ascesa di Pipino il Breve era disastrosa: la scolarità era quasi scomparsa nel regno merovingio e la vita intellettuale pressoché inesistente. La necessità di intervenire era già chiara a Pipino[118], e il re franco perseguì un ampio progetto di riforma in tutti i campi, soprattutto in quello ecclesiastico, ma quando Carlo pensava alla ristrutturazione e al governo del suo regno, rivolgeva particolare attenzioni a quell'Impero romano di cui si faceva prosecutore sia nel nome, sia nella politica.

Carlo dette impulso ad una vera e propria riforma culturale in più discipline: in architettura, nelle arti filosofiche, nella letteratura, nella poesia. Personalmente era un illetterato, e non ebbe mai una vera e propria educazione scolastica, benché conoscesse il latino e avesse una certa dimestichezza nella lettura, ma comprendeva a fondo l'importanza della cultura nel governo dell'impero.

La Rinascita carolingia ebbe una natura essenzialmente religiosa, ma le riforme promosse da Carlo Magno assunsero una portata culturale. La riforma della Chiesa, in particolare, si proponeva di elevare il livello morale e la preparazione culturale del personale ecclesiastico operante nel regno. Carlo era ossessionato dall'idea che un insegnamento sbagliato dei testi sacri, non solo dal punto di vista teologico, ma anche da quello "grammaticale", avrebbe portato alla perdizione dell'anima, poiché se nell'opera di copiatura o trascrizione di un testo sacro si fosse inserito un errore grammaticale, si sarebbe pregato in modo non consono, dispiacendo così a Dio[119]. Con la collaborazione del cenacolo di intellettuali provenienti da ogni parte dell'impero, denominato “Accademia Palatina[120], Carlo pretese di fissare i testi sacri (Alcuino di York, in particolare, intraprese l'opera di emendazione e correzione della Bibbia[121]) e standardizzare la liturgia, imponendo gli usi liturgici romani, nonché di perseguire uno stile di scrittura che riprendesse la fluidità e l'esattezza lessicale e grammaticale del latino classico. Nell’Epistola de litteris colendis si prescrisse a preti e monaci di dedicarsi allo studio del latino, mentre con l'Admonitio generalis del 789 fu ordinato ai sacerdoti di istruire ragazzi di nascita sia libera sia servile[122], ed in ogni angolo del regno (e poi dell'Impero) sorsero delle scuole vicino alle chiese ed alle abbazie[123][124]. Sotto la direzione di Alcuino di York, intellettuale dell'”Accademia Palatina”, vennero redatti i testi, preparati i programmi scolastici ed impartite le lezioni per tutti i chierici[125]. Neanche la grafia venne risparmiata, e fu unificata, entrando in uso corrente la “minuscola carolina”, derivata dalle scritture corsive e semicorsive[126], e venne inventato un sistema di segni di punteggiatura per indicare le pause (e collegare il testo scritto alla sua lettura ad alta voce). Anche l'elaborazione e l'introduzione nei vari centri monastici ed episcopali del nuovo sistema di scrittura si deve all'influenza di Alcuino. Da quei caratteri derivarono quelli utilizzati dagli stampatori rinascimentali, che sono alla base di quelli odierni[127][128].


Dopo essersi garantito la sicurezza dei confini, procedette alla riorganizzazione dell'Impero, estendendo ai territori da lui annessi il sistema di governo già in uso nel regno franco, nel tentativo di costruire un'entità politica omogenea. In realtà fin dai primi tempi del suo regno Carlo si era posto l'obiettivo di trasformare una società semibarbara come quella dei Franchi in una comunità regolata dal diritto e dalle regole della fede, sul modello non solo dei re giudaici dell'Antico Testamento, quanto piuttosto su quello degli imperatori romani cristiani (Costantino in testa) e su quello di Agostino, ma il progetto non si concretizzò come Carlo avrebbe voluto.
Cuius regio, eius religio
i principi tedeschi protestanti


Quando Martin Lutero iniziò ciò che sarebbe stato conosciuto successivamente come la Riforma protestante, molti duchi locali videro l'opportunità di opporsi all'Imperatore.

Dopo un secolo di contrasti, il conflitto tra i duchi e l'impero, fra l'altro, portò alla guerra dei Trent'anni (1618-1648), devastando gran parte dell'Europa
La forte fedeltà degli Uberti all'imperatore fece sì che i due schieramenti cittadini si raccordarono a quelli sovracittadini delle contese tra papato e impero, anche se in realtà in origine "guelfo" ebbe un significato semplicemente di "anti-ghibellino", indipendentemente dall'appoggio al papato


« come momento di cristallizzazione (…) nel Medioevo la sua divisione più che la sua unificazione »


Per Arti liberali si intende il curriculum di studi seguiti dai chierici prima di accedere agli studi universitari, sono rappresentate da personaggi femminili e di solite velate tutte della stessa età. Per Arti liberali si definiscono quelle attività creative che richiedono un'applicazione intellettuale e la cui produzione (non materiale) è costituita da particolari valori di contenuto.

Le Arti liberali sono divise in TRIVIUM (grammatica, dialettica e retorica) e QUADRIVIUM (aritmetica, musica, geometria e astronomia) si riferiscono allo studio della natura.

Grammatica: rotulo, libro o tavola, su cui scrive un bimbetto, verga o sfera per stimolare lo scolaro pigro, l'insegnante può avere in mano anche coltello e raschietto per togliere gli errori; rappresentanti sono Prisciano o Donato.
Retorica: cartiglio, rotulo o tavola, spada e scudo, gesto dell'allocuzione; rappresentante è Cicerone.
Dialettica: un fiore nella mano destra come simbolo del bene, e uno scorpione nella sinistra come simbolo di falsità; rappresentante è Aristotele.
Aritmetica: monete in mano, calcoli scritti su una tavola, corda per contare; rappresentanti sono Pitagora o Boezio.
Geometria: cerchio, squadra, canna per misurare, tavola con figure geometriche; rappresentante è Euclide.
Musica: strumenti musicali; rappresentanti sono Juabal e Tubalkain o Pitagora.
Astronomia o Astrologia: sfera, astrolabio, strumento per misurare; rappresentante è Tolomeo.

Per quanto riguarda le Arti meccaniche, richiedono invece uno sforzo fisico, si contrappongono alle a. Liberali, richiedono un'applicazione manuale e il prodotto finale è un manufatto di qualsiasi genere. Varie scene dell'Antico Testamento possono essere viste come loro rappresentazioni: Archittettura, Scultura, Pittura e Disegno. I cicli completi sono rari e sempre uniti a quelli delle Arti liberali; le Arti meccaniche sono di solito simboleggiate da personaggi maschili.

Per altro il primo ciclo iconografico di fatto completo si trova nei rilievi del campanile di Giotto, dove le Arti meccaniche seguono i primi lavori e le prime scoperte dell'Antico Testamento.

La distinzione tra Arti liberali e Arti meccaniche fu effettuata per la prima volta da Marco Terezio Varrone, storico, erudito e studioso della letteratura che ordinò il sistema delle scienze in una delle sue opere: Le Discipline (composte da 9 libri).


Ma la differenza più evidente rispetto alla cultura latina stava certamente nell'interpretazione complessiva della storia e del sapere che si offriva agli studenti. Per un insegnante medievale era scontato ritenere che la storia sia guidata dalla provvidenza divina e che in tutti gli scrittori, anche in quelli pagani, si possa rintracciare un'anticipazione delle verità rivelate dal Cristianesimo: questa è la ragione per cui i critici medievali interpretavano, ad esempio, la IV egloga del poeta latino Virgilio come una prefigurazione della venuta salvifica del Cristo.

Un'altra differenza rispetto al panorama culturale dell'istruzione odierna era data dal forte simbolismo di cui erano impregnate tutte le discipline. La realtà era ritenuta un insieme di segni della presenza di Dio e del mondo ultraterreno, non per nulla il testo più rappresentativo della cultura medievale, la Divina Commedia di Dante Alighieri(Che partecipò alle arti liberali) non può essere compreso se non si tiene presente di continuo la dimensione dell'allegoria. Le cose non sono solo quello che appaiono ma (come il corpo contiene l'anima) contengono una realtà più profonda (la selva rappresenta il peccato, Virgilio la Ragione, ecc.).

A conclusione degli studi liberali, dal Basso Medioevo in poi, si poteva scegliere un percorso di studi universitari in qualche prestigiosa istituzione.
Una novità nel Medioevo, rispetto al mondo antico, era che chiunque poteva accedere all'istruzione elementare (anche a Roma la scuola la pagavano le famiglie). Infatti in tutti o quasi i monasteri, tra le altre strutture ricettive, esisteva la scuola (destinata ai figli dei contadini perché i figli dei feudatari o delle famiglie più in vista studiavano in casa propria seguiti da precettori privati). Come a Roma antica nelle scuole dei monasteri si poteva imparare a leggere, scrivere e far di conto; ma ci si fermava qui.
La grafica risultava elegante e la forma dei caratteri più accurata. Una delle differenze principali rispetto alla minuscola corsiva furono le lettere "a" e "t": vennero semplificate per poterle distinguere in maniera più semplice. La minuscola carolina riscontrò un rapido successo poiché facilitò la trascrizione di testi classici agli amanuensi, semplificò notevolmente la comunicazione internazionale e diede una nuova spinta alla rinascita e alla diffusione della cultura classica nei secoli altomedievali.
Dal palazzo proveniva quell'indirizzamento culturale che uniformava l'intero impero. Si rimodellò la grafia usata nella scrittura (la minuscola carolina), rendendola chiara e facilmente leggibile, e si raggiunsero una serie di obiettivi culturali e artistici attraverso una sistematica e consapevole restaurazione di modelli antichi.
Carlo amava circondarsi anche di poeti che davano avvio a vere e proprie gare di componimenti che il sovrano si compiaceva di giudicare. Se stupisce che Carlo sapesse a mala pena leggere e scrivere, bisogna sottolineare come lettura e scrittura fossero viste all'epoca come attività da lasciare ai ceti subalterni, inadatte ai ceti aristocratici laici, mentre la cultura doveva avvalersi soprattutto della trasmissione orale e della memoria individuale
Il re franco considerava la stessa presenza dei dotti alla corte di Aquisgrana come la quinta colonna del suo potere politico, non tanto per il piacere di essere dichiarato da loro "dottore in grammatica, finissimo retorico dalla dialettica insuperabile; meglio diCicerone e Lucrezio" quanto perché, sulla loro opera, si basava l'elaborazione di quella politica imperiale che si stava sviluppando a palazzo.
Carlo Magno infatti, perseguendo la sua politica unificatrice, promulgò dei capitolari che servivano ad integrare le leggi esistenti e che spesso sostituirono pezzi completamente mancanti dei vecchi codici.
In ogni angolo dell'Impero sorsero delle scuole vicino alle chiese ed alle abbazie. L'accesso all'istruzione ecclesiastica era gratuito, in teoria anche il figlio di un servo- se aveva volontà e poteva godere della benevolenza di qualche magnate-poteva accedere agli studi. L'azione di Carlo Magno non si limitò ad un mero mecenatismo della cultura: egli pretese di fissare e standardizzare la liturgia, i testi sacri, e perfino di perseguire uno stile di scrittura che riprendesse la fluidità e l'esattezza lessicale e grammaticale del latino classico. Addirittura il credo cattolico, quello conosciuto da tutti, venne imposto da Carlo Magno al clero occidentale.
Non fu però un recupero integrale e purista, anzi si fecero proprie tutte quelle realtà regionali nel frattempo fiorite in Europa, che ormai avevano trasformato e arricchito di nuove esperienze il retaggio romano: la tradizione cristiana irlandese e anglosassone, la cultura ellenizzata dei territori mediterranei, la cultura longobarda, oltre a tutta quella serie di nuovi influssi esterni come quello arabo e persiano.
Il re franco perseguì piuttosto una riforma in tutti i campi, per poter "correggere" delle inclinazioni che avevano portato a un decadimento generale. Ma quando l'Imperatore pensava alla ristrutturazione ed al governo del suo regno, rivolgeva le sue attenzioni a quell'Impero Romano di cui si faceva prosecutore ideale sia nel nome, sia nella politica.


La Signoria rappresentò un momento fondamentale di transizione verso la formazione dello Stato moderno. Inizia infatti il processo di specializzazione e di accentramento delle varie funzioni del potere: diplomazia, amministrazione burocratica, prelievo fiscale. In Italia l'evoluzione dello Stato signorile portò alla formazione dello Stato regionale (per esempio Milano con la Lombardia, Venezia con il Veneto, Firenze con quasi tutta la Toscana). Tale formazione territoriale determinò la nascita di una pluralità di centri di produzione economica, artistica e culturale ma creò una dannosa frammentazione del territorio italiano esponendolo così alle invasioni straniere. Nessuno Stato regionale italiano riuscì ad avere una forza tale da prevalere nettamente sugli altri.

Alla fine le Signorie si evolsero in Principati con dinastie ereditarie e ciò avvenne, come già detto, quando i Signori, riconoscendo l'imperatore e pagando una quantità di denaro, vennero legittimati e riconosciuti come autorità da sudditi e principi. I Signori tentarono anche di creare degli Stati sovraregionali estendendo il proprio territorio.

Durante il Trecento le borghesie cittadine con complesse manovre economiche, tendono a procurarsi il controllo di territori sempre più vasti attorno alla città per imporre il proprio monopolio economico ed anche allo scopo di eliminare, anche con la forza, le signorie minori. "Dalla piccola signoria, cioè, si passa al principato, che è uno stato regionale in cui i poteri sono saldamente concentrati nelle mani di un principe, il quale, come i monarchi europei, è riuscito a limitare i poteri della vecchia nobiltà e delle gerarchie ecclesiastiche".[5]
quando le antologie ci presentano il sommo poeta, ci viene quasi sempre detto che fosse di parte guelfa, per la precisione bianca: va detto infatti che i guelfi erano divisi in bianchi (che si rifacevano alla famiglia dei Cerchi) e neri (che si rifacevano alla famiglia dei Donati): a dire il vero fu solo la Toscana (Firenze soprattutto) che fu teatro dello scontro fra queste due famiglie.
Per fare un esempio moderno potremmo prendere un grande partito politico (la maggioranza, i bianchi), e una corrente (minoritaria, in questo caso i neri) al suo interno.

ma Dante, da che parte stava?

Formalmente la sua simpatia andava ai Guelfi, per di più di parte bianca; ma per quale ragione il Foscolo lo definisce “ghibellin fuggiasco” nei Sepolcri?...andiamo con ordine: va infatti ricordato quel che Dante stesso scrisse sia nella Commedia, sia nella sua unica ma ancor oggi valida opera politica, il “De Monarchia”.

Cominciamo dalla Commedia: qui il giudizio di Dante sull’Impero per eccellenza, ovvero quello Romano, è assolutamente il migliore possibile, pieno di gratitudine e di un certo senso di nostalgia; contemporaneamente la Chiesa e soprattutto il papato sono presi di mira con una sagacia incredibile, piena di critica e direi anche di condanna: un esempio per tutti è papa Bonifacio VIII (che aveva condannato Dante all’esilio) è solo uno dei vari papi dannati all’inferno.

L’aquila imperiale gode di pari fama, forse anche superiore all’esaltazione della Commedia, nel de Monarchia: la famosa teoria dei “Due Soli”: dove il Sole (l’Impero) illumina e la risplendere la Luna (il Papato), dove entrambi i pianeti godono della massima autonomia. L’impero devo quindi assolvere la pace terrena, quindi garantire che in terra gli uomini possano raggiungere un buon grado di felicità, mentre per quanto concerne il raggiungimento felicità celeste, la Chiesa è l’unica che se ne possa occupare: la presenza di Dio però è sempre al centro, infatti sia la Chiesa (ovviamente) che il potere imperiale discendono direttamente dal volere divino, garante della felicità universale.


Da questi ragionamenti possiamo quindi dedurre cosa?
Che Dante probabilmente abbia avuto due vite: prima abbia militato nella parte Guelfa, ricoprendo anche incarichi civili nel comune fiorentino e prendendo parte all’epica battaglia di Campaldino nel 1289 contro gli aretini ghibellini; in seguito all’esilio probabilmente “è maturato” e ha deciso di schierarsi con la parte ghibellina, scrivendo quindi la Commedia prima e soprattutto la Monarchia poi.

Va ricordato infatti questo: l’esilio colse Dante nell’anno 1302: sia la Commedia (iniziata attorno al 1300) e il De Monarchia (1314) sono posteriori alla data della condanna a morte che lo esiliò da Firenze: inoltre va sottolineato che proprio mentre Dante scrive il De Monarchia è imperatore è Enrico VII, quel famoso “veltro” citato nella Divina Commedia; il veltro è un cane da caccia e secondo la teoria dantesca solo lui avrebbe potuto scacciare le belve (lonza, leone e lupa: rappresentazione allegorica dei vizi umani) che nel canto I dell’Inferno minacciano lo stesso Dante.

Ma qui stiamo entrando in un altro campo, assai ricco ma assai fuori-tema: vorrei chiudere ricordando il tentativo (diciamo pure un semi-colpo di mano) che Dante attuò come capo dell’esercito degli esuli nel 1302, alla guida del signore ghibellino di Forlì, per rientrare a Firenze; tentativo purtroppo fallito.
L’aquila imperiale gode di pari fama, forse anche superiore all’esaltazione della Commedia, nel de Monarchia: la famosa teoria dei “Due Soli”: dove il Sole (l’Impero) illumina e la risplendere la Luna (il Papato), dove entrambi i pianeti godono della massima autonomia. L’impero devo quindi assolvere la pace terrena, quindi garantire che in terra gli uomini possano raggiungere un buon grado di felicità, mentre per quanto concerne il raggiungimento felicità celeste, la Chiesa è l’unica che se ne possa occupare: la presenza di Dio però è sempre al centro, infatti sia la Chiesa (ovviamente) che il potere imperiale discendono direttamente dal volere divino, garante della felicità universale.
Meno forte dunque nei contenuti, la poesia lirica dei "Siciliani" (come li chiamava Dante) contiene in sé un linguaggio sovrarregionale, qualitativamente e quantitativamente ricco, data anche la sua capacità di coniare parole nuove per neologismo e sincretismo, assimilando rapporti dialettali italiani e francesi (è dimostrata la stretta relazione tra i siciliani e la Marca Trevigiana, con cui Federico aveva stretti contatti) alle lingue d'oltralpe. Tale ricchezza fu dovuta anche alle caratteristiche intrinseche alla "Magna Curia", che spostandosi al seguito dell'irrequieto imperatore nel corso delle sue campagne politico-militare, non poteva per forza di cose prendere a modello della nuova lingua un singolo dialetto locale. Limitandoci solo al discorso sui dialetti, vi sono già differenze (non troppo marcate) tra la parlata catanese epalermitana, e a queste dobbiamo aggiungere alcune influenze continentali, ma non esclusive, alla zona della Puglia.
La Scuola Siciliana fu travolta dal sistema di congiure e di complotti che fu ordita contro il sistema di governo di Federico II, eccessivamente illuminato per il suo tempo e forse, soprattutto, per la paura che lo Stato Pontificio aveva della possibilità che Federico II riunificasse la corona di Sicilia con quella di Germania, circostanza che avrebbe costretto il papato nella morsa del regno di Hohenstaufen. Della congiura di cui fu accusato Pier delle Vigne nei confronti di Federico II dà monumentale testimonianza Dante Alighieri (D.C., Inferno XIII), peraltro asserendo l'estraneità di Pier delle Vigne alle accuse. Dopo la morte di Federico, la Scuola ebbe un rapido tramonto.
Federico II, uomo di grande cultura anche linguistica, intendeva avvalersi di ogni possibile mezzo per stabilire la sua supremazia sull'Italia, e in Europa. A questo fine attuò una politica strumentale, anche nel campo culturale. Con la Scuola Siciliana egli volle creare una nuova poesia che fosse laica, e si potesse così contrapporre al predominio culturale che la Chiesa aveva nel periodo, non municipale, da opporsi alla produzione poetica comunale (l'imperatore era in lotta con i comuni) e aristocratica, che ruotasse, cioè, intorno alla sua figura.
È rimarchevole che Federico II di Svevia sia riuscito a compiere una crociata, la sesta, senza combatterla, grazie a un sistema di ambasciate che scongiurarono lo scontro con il sultano al-Malik al-Kamil e che, trasformandosi in un incontro tra filosofi, condusse gli occidentali all'introduzione dello zero (per il tramite del dialogo tra gli esponenti della corte di al-Kamil e Leonardo Fibonacci, matematico pisano della corte di Federico II).
Non si occuparono, invece, di temi legati alla guerra, poiché Federico II garantiva la pace e la serenità all'interno del suo regno. I poeti di questa corrente poetica narravano la completa sottomissione che si rende alla donna, proprio come un vassallo verso il suo padrone
Uomo straordinariamente colto ed energico, stabilì in Sicilia e nell'Italia meridionale una struttura politica molto somigliante a un moderno regno, governato centralmente e con una amministrazione efficiente.[2]
Il suo regno fu principalmente caratterizzato da una forte attività legislativa e di innovazione artistica e culturale, volta a unificare le terre e i popoli, ma fortemente contrastata dalla Chiesa, di cui il sovrano mise in discussione il potere temporale. Federico stesso fu un apprezzabile letterato, convinto protettore di artisti e studiosi: la sua corte fu luogo di incontro fra le culture greca, latina, araba ed ebraica.
Manfredi, uomo di non comuni doti intellettuali e poeta, fu un generoso mecenate e accolse alla sua corte scienziati, poeti e artisti. Fece tradurre numerosi testi dall'arabo e dal greco e scrisse versi in volgare.


Si trattava di un compromesso che segnava la rinuncia al piano di dominio assoluto di Federico, mentre i Comuni avrebbero mantenuto la loro larga autonomia. Rimase l'unico riconoscimento imperiale delle prerogative collettive dei comuni lombardi e per questo la pace di Costanza venne celebrata per secoli.



^ Franco Cardini Marina Montesano, Storia Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia, 2006, pag. 219 "Questo stato di cose dette luogo a metà sec. XII ai complessi rapporti fra il movimento comunale e l'imperatore Federico Barbarossa, il quale nelle due diete di Roncaglia del 1154 e 1158 aveva avocato a sé i regalia, i diritti pubblici (tra cui una quantità di dazi e di dogane, il libero esercizio delle quali era invece indispensabile alla circolazione delle merci e quindi alla prosperità cittadina e comunale), mentre dopo trent'anni di contese giuridiche e di aperte lotte armate, nel 1183, con la pace di Costanza, dovette adattarsi a riconoscere i Comuni inserendoli tuttavia nell'ordine feudale."


hohenstaufen federico ii Raffinato e moderno uomo di cultura, oltre che abile politico e esperto diplomatico, lasciò in Germania larga autonomia ai grandi feudatari, rivolgendo il suo interesse soprattutto all'Italia meridionale. Valendosi di validi collaboratori e di una solida e rinnovata burocrazia, diede al regno di Sicilia un nuovo assetto amministrativo ed economico, combatté le autonomie dei vescovi, dei baroni e delle città, fondò un'importante università a Napoli (1224) e stabilì la sua corte, ricca e raffinata, a Palermo. Qui, luogo di incontro di tradizioni culturali arabe, latine, ebraiche e greche, nacque la prima scuola poetica in lingua volgare, detta scuola siciliana, della quale lo stesso imperatore fece parte.
Proserpina
Luna 
Fertile 
Mezzaluna fertile
Libero pensatore gnostico o benpensante 
Comunità attiva numerante sostituita dalla proprietà privata numerata
Non si fa un regime , sorge
Nomade varietà originalità è per sostituzione 
Corpo numerico 
Articolazione complessità mobilità instabilità trasformabilitá


In un sistema simbolico, come abbiamo visto, le singole unità dell’espressione corrispondo a singole unità del contenuto. In un sistema semi-simbolico, invece, si crea una corrispondenza fra una categoria dell’espressione e una del contenuto. Così i due elementi opposti di una categoria dell’espressione si legano ai due elementi opposti di una categoria del contenuto.

differenza sistema simbolico semisimbolico
Motore Immobile, che, pur invisibile e spirituale, può essere affermato a partire dal divenire che constatiamo nel mondo fisico.
Le conseguenze fatali
Diplomazia e strategia conseguenze del segreto 
I rumori naturali dell'uomo
Vagava seguendo un ritmo spezzato che imitava gli echi naturali 
L'altrove dove i lignaggi e le figure di stato perdono la pertinenza 
Le metriche a cui il numero è subordinato operano la surcodificazione. Da qui le condizioni del suo sviluppo e autonomia .
A questo punto è chiara la differenza esistente fra iconografia ed iconologia. La prima è una pura descrizione e catalogazione di immagini, mentre la seconda rappresenta, per lo più, un’interpretazione dell’arte che possa interagire con le altre scienze umane. Panofsky paragona questo rapporto a quello esistente fra etnografia ed etnologia.
Macchina da guerra e flussi particelle cambiano singolarmente di senso secondo le interazioni in cui sono presi e le condizioni concrete della loro applicazione o del loro insediamento . Scambio vicendevole interdipendente


Il mittente invia un messaggio al destinatario. Per essere operante, il messaggio richiede in primo luogo il riferimento a un contesto (il "referente", secondo un'altra terminologia abbstanza ambigua), contesto che possa essere afferrato dal destinatario, e che sia verbale, o suscettibile di verbalizzazione; in secondo luogo esige un codice interamente, o almeno parzialmente, comune al mittente e al destinatario (o, in altri termini, al codificatore e al decodificatore del messaggio); infine un contatto, un canale fisico e una connessione psicologica fra il mittente e il destinatario, che consenta loro di stabilire e di mantenere la comunicazione (...)

Ciascuno di questi fattori dà origine ad una funzione linguistica diversa. Sebbene distinguiamo sei aspetti fondamentali del linguaggio, difficilmente potremmo trovare messaggi verbali che assolvano sltanto una funzione. La diversità dei messaggi non si fonda sul monopolio dell'una o dell'altra funzione, ma sul diverso ordine gerarchico fra di esse.

(da: Jakobson, R., 1963, Essais de linguistique générale, Paris, Minuit; trad. it. Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 185-186).

la funzione metalinguistica, che si ha quando il discorso è concentrato sul codice;
la funzione poetica, che pone l’accento sul messaggio.
sostanza: non la materia che non è attuale, né determinata, né indipendente, né davvero una; 


I sistemi semiotici si caratterizzano per la non conformità. I sistemi simbolici, invece, si caratterizzano per la conformità, cioè per la perfetta corrispondenza fra unità del piano dell’espressione e unità del piano del contenuto.

Anche i sistemi semi-simbolici sono caratterizzati dalla conformità: la conformità, però, non riguarda i singoli elementi, ma le categorie dell’espressione e del contenuto. Cosa significa esattamente?

Come sappiamo, descriviamo il piano dell’espressione e il piano del contenuto di un sistema semiotico attraverso delle categorie. Le categorie assumono solitamente una forma binaria. In altre parole le categorie includono di solito due termini opposti. Per esempio, sono categorie del piano dell’espressione verbale: sonoro/sordo, nasale/non nasale, mentre sono categorie del piano del contenuto: animato/inanimato, buono/cattivo, ecc.

Se accade che due elementi opposti appartenenti ad una stessa categoria sono presenti all’interno dello stesso testo (per esempio, una storia che contrappone il bene al male o la vicinanza di due fonemi che si oppongono per qualche tratto distintivo) si parla di contrasto.