Il pathei mathos di matrice eschilea (ovvero la possibilità dell’uomo di giungere alla conoscenza attraverso il dolore) non ha qui semplicemente più senso: l’uomo non può infatti in nessun modo comprendere il dio, assoggettarlo ai suoi parametri conoscitivi. Egli deve al contrario rassegnarsi al fatto di non poterlo comprendere. È questa l’idea di pietà religiosa che inizia ad emergere (o forse sarebbe meglio dire, ariemergere) a partire dalle tragedie di Sofocle, trovando infine a mio giudizio una delle sue espressioni più chiare nelle Baccanti di Euripide. Secondo questa tendenza, è proprio la pretesa dell’eroe tragico di sapere ciò che ne costituisce l’elemento di hybris, di tracotanza, il mancato riconoscimento della potenza e della trascendenza divine. L’unico sapere concesso all’uomo infatti è – socraticamente – il sapere di non sapere.

La crisi della razionalità (e della civiltà) classica si manifesta dunque principalmente, nel genere letterario della tragedia, nel sovvertimento della concezione religiosa eschilea del rapporto tra umano e divino, secondo l’inversione di tendenza appena descritta.

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