Il mondo difatti – come gli dimostra Dioniso – non è retto da Sapienza e Ordine, neppure da un ordine e da una sapienza incomprensibili all’uomo in quanto divini, bensì piuttosto da un eterno Caos distruttore e rigeneratore. E assieme all’idea di un tale Ordine, crollano tutta una serie di altre certezze, a loro volta intrinseche alla civiltà classica, che né Sofocle né lo stesso Euripide avevano mai osato (quantomeno mai così radicalmente) porre in discussione.

Le Baccanti appaiono dunque come l’esito estremo di un processo – quello della disgregazione del razionalismo e dell’umanesimo classici – i cui inizi risalgono, per quanto riguarda la tragedia, a Sofocle. Tale opera rappresenta l’assoluto trionfo del dionisiaco sull’apollineo, della spontaneità priva di regole sulla ragione regolatrice: una caratteristica che la rende qualcosa di assolutamente originale all’interno dell’intero panorama delle tragedie classiche, e non solo di esse.

Come notò lo stesso Nietzsche, essa pare costituire, nelle intenzioni dell’autore, una sorta di tardivo ravvedimento, un tentativo di ritorno alle origini spirituali del teatro, a quei rituali ancestrali e irrazionali che vedevano nell’uccisione di un capro lo strumento per propiziarsi la divinità. Più di qualsiasi altra tragedia dunque, le Baccanti lasciano intravedere in chi le ha scritte un nostalgico desiderio di ritorno al passato, e ad un passato molto lontano, quasi mitico.

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