Pertanto si verifica una nuova dicotomia: o vivete muti e nessuno, neanche voi stessi, saprà niente di ciò che succede perché un’esperienza muta (in questo momento) non farà mai una vera esperienza (l’eventuale saggezza o scienza che si può ricavare da questo momento). Oppure tentate ciò che mi appare allo stesso tempo necessario e impossibile da realizzare: trovare le parole malgrado tutto per questa esperienza, trovare il gioco di parole capace di accordare malgrado tutto questa esperienza al nostro pensiero. L’immagine ha valore nella misura in cui è capace di modificare il nostro pensiero, cioè di rinnovare il nostro linguaggio e la nostra conoscenza del mondo. È come quando Jean Genet, davanti agli autoritratti di Rembrandt, scrive: “sta scherzando, si sta divertendo”, e non: “egli ride, sorride”. Perché in questa differenza c’è la pittura stessa di Rembrandt, il suo tocco, il suo tratto che provoca sulla tela “rigagnoli” o “stagni” di colore. Si guarda quindi con le parole, a condizione che esse compongano una poetica, una possibilità di esplorare con delle parole il territorio dell’immagine che sfugge al discorso.

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