il mondo biblico, diversamente dalla concezione greco-occidentale, non possedeva alcuna visione teorica della temporalità, quale oggetto di riflessione a sé stante. Piuttosto, essa veniva a coincidere, di fatto, con lo svolgersi stesso degli eventi.
Johannes Pedersen, 4 nel mondo biblico sarebbe presente la coscienza della temporalità solo nella misura in cui essa diviene racconto di eventi accaduti nel tempo.
La storia come creazione del genio ebraico (Mircea Eliade) Successivamente, attorno alla metà del secolo scorso, il grande studioso di storia e di fenomenologia delle religioni, Mircea Eliade, 5 ha difeso la tesi secondo cui il concetto di storia che l’occidente ha fatto proprio è, sostanzialmente, creazione del genio ebraico. Si passa così da una “concezione ciclica” del tempo, tipica del mito, ad una “concezione lineare” di eventi collegati tra loro e progressivamente rivolti ad un futuro. L’apporto del filone profetico nella storia di Israele e di Giuda ha contribuito in modo decisivo a qualificare un concetto preciso di storia, tesa verso un compimento e tale da articolare entro una logica finalistica, la scansione degli avvenimenti. Da qui la notorietà del tradizionale luogo comune della visione ciclica o lineare della storia confluita in tutti i manuali di storia e di filosofia antica: «Per mezzo dei profeti che interpretavano gli avvenimenti contemporanei alla luce di una fede rigorosa, questi avvenimenti si trasformavano in “teofanie negative”, in “collera”di Jahhvè”. In questo modo non soltanto acquistavano senso, ma essi svelavano anche la loro intima coerenza, rivelandosi come l’espressione concreata di una medesima, unica volontà divina. Così per la prima volta i profeti valorizzano la storia, giungono a superare la visione tradizionale del ciclo – concezione che assicura a ogni cosa un’eterna ripetizione – e scoprono un tempo a senso unico. Questa scoperta non sarà immediatamente e totalmente accettata dalla coscienza di tutto il popolo giudaico, e le antiche concezioni sopravvissero ancora per molto tempo. Ma per la prima volta vediamo affermarsi e progredire l’idea che gli avvenimenti storici hanno un valore in se stessi, nella misura in cui vengono determinati dalla volontà di Dio. Questo Dio del popolo giudaico non è più una divinità orientale creatrice di gesti archetipici, ma una personalità che interviene continuamente nella storia, che rivela la sua volontà attraverso gli avvenimenti (invasioni, assedi, battaglia, ecc.). I fatti storici divengono così “situazioni” dell’uomo di fronte a Dio, e come tali acquistano un valore religioso che nulla fino ad allora poteva attribuire loro. E’ anche vero dire che gli ebrei per primi scoprirono il significato della storia come epifania di Dio, e questa concezione, come bisogna aspettarsi, fu ripresa e ampliata dal cristianesimo […] Il significato acquisito dalla “storia” nel quadro delle diverse civiltà arcaiche non ci è mai rivelato così chiaramente come nella teoria del “grande tempo”, cioè dei grandi cicli cosmici. E si precisano due orientamenti distinti: l’uno tradizionale, presentito (senza mai essere stato formulato con chiarezza) in tutte le culture “primitive”, quello del tempo ciclico che si rigenera periodicamente ad infinitum (sebbene se ciclico anche’esso) tra due infiniti temporali».6
Boman studia in particolare il sistema verbale ebraico e giunge alla conclusione che la visione ebraica del tempo è costituita, in modo puntuale, dall’immagine di un “ritmo” che fa scorrere il tempo, cadenzandolo. Respingendo le classiche raffigurazioni che hanno caratterizzato la concezione del tempo come un cerchio o una linea retta - immagini utilizzate per contrapporre la visione ebraica del tempo alla visione mitica - Boman assume invece l’immagine del battito cardiaco. Ma la più eloquente raffigurazione, che offre in massima sintesi il senso della posizione dell’ebreo di fronte al tempo è, più precisamente, quella del rematore. Invece di concepire il tempo nella scansione tra passato, presente e futuro, in una linea retta verso una meta, l’immagine del rematore attira l’attenzione sulla direzione dello sguardo rivolto indietro, cioè verso il passato, proprio quando, coi colpi di remi, egli tende la barca in avanti, cioè in direzione del futuro, voltando le spalle alla rotta della barca. C’è una traiettoria verso la quale si va «di spalle» mentre il volto guarda alle radici, alle fonti, al passato. Detto diversamente, l’atteggiamento dell’ermeneutica ebraica dei testi sacri mette in atto tale concetto di storia quando si rivolta alla Torah e dirige gli stessi testi profetici, per essere compresi, verso quel passato di una storia originaria, raccontata appunto dal testo di Mosè.
Ciò che il Nuovo Testamento chiama kairós, diviene così una specie di tempo puntuale ed eccezionale che accade nella vita del popolo e del singolo: «Ora se Israele ignorava la concezione del tempo quale a priori assoluto e lineare si può anche dire che esso non era in grado di astrarre il tempo dai singoli avvenimenti. Israele non sapeva immaginarsi un tempo senza un evento determinato; conosceva cioè soltanto un ‘tempo pieno’. Per indicare il nostro concetto occidentale di ‘tempo’ l’ebraico non possiede alcun vocabolo. Se si prescinde da ‘ôlam che designa il remoto passato o futuro, il termine più cospicuo attinente alla sfera del tempo è ‘et che significa però ‘tempo’ nel senso di punctum temporis, di momento, periodo o lasso di tempo».9
Per Von Rad l’esperienza cultuale e liturgica di Israele postula anzitutto l’evento celebrativo della festa come luogo del «tempo riempito» per eccellenza che ha come contenuto il memoriale di eventi storici posti a fondamento della tradizione credente. La scansione annuale delle feste, intesa come memoria delle tappe più importanti della storia di Israele, pone in sé un problema di comprensione: come tenere insieme due modelli diversi di storicità? L’uno liturgico e annualmente reiterato, l’altro, legato allo svolgersi della storia come puntuale evento salvifico, collocato in una prospettiva di continuità e di successione di interventi divini nel tempo. La comprensione profonda dell’esperienza di una «storia della salvezza» fu per Israele la condizione positiva per svincolarsi dalle concezioni comuni del culto e del tempo del vicino Oriente antico
Il primo movimento di originalità ebraica della storia consiste, dunque, nella separazione tra concezione cultica degli eventi, dipendente da un’idea ciclica del tempo e nell’assunzione dell’evento come punto di un processo della «storia della salvezza» guidata e scandita dall’intervento divino.
bisogna mettere in conto anche quella che si chiama la concezione dualistica della storia, l’idea cioè dei due eoni separati da una frattura prima della quale sta l’azione distruttrice di Jahvé e oltre la quale si colloca la nuova realtà che Jahvé chiama ad essere».11
modello di opposizione tra pensiero greco e pensiero ebraico prodotto dagli studi a lui precedenti (il contrasto tra statico e dinamico; la contemplazione o l’azione; l’astratto o il concreto, da cui deriva la distinzione tra soggetto e oggetto tipica del pensiero greco; la visione dualistica o unitaria dell’antropologia)
entro una prospettiva tesa a difendere un’immagine isomorfa della relazione tra le dimensioni del linguaggio, del pensiero e della realtà.
Barr mostra, in coerenza con gli studi linguistici e filosofici, quanto tali sistemi, pur in relazione tra loro, non possano essere ricondotti ad una reciproca causalità e dipendenza: «Anche affrontando il problema nella maniera più astratta, è evidente che, se si ammette l’esistenza di un rapporto fra lo schema mentale di un popolo che parla una certa lingua e la struttura della sua lingua, non si può evitare di ammettere anche le seguenti semplici relazioni: a) che lo schema mentale è determinato dalla struttura linguistica; b) che la struttura linguistica è determinata dallo schema mentale; c) che la struttura della lingua e lo schema mentale infuiscono reciprocamente uno sull’altra. A quest’ultimo caso c) si potrebbe aggiungere un’alternativa d), cioè che questo fenomeno della interazione non sia costante e uniforme, ma che si riveli solo casualmente, ora in un punto ora in un altro; in questo caso bisogna ammettere che esso sia prodotto da cause e circostanze che devono essere stabilite, una per una, volta per volta».15
la pretesa originalità ebraica dell’idea di «tempo» e di «storia» era cresciuta in simbiosi con una coscienza realistica che i racconti biblici documentassero ciò che storicamente sarebbe avvenuto.
modalità di scrittura della storia
«L’idea di “storia”, come successione di avvenimenti tra loro in qualche modo collegati, presuppone necessariamente uno schema mentale in cui esistano un “prima” e un “dopo”, cioè, in altri termini, una concezione del tempo di tipo “lineare”. Gli eventi si collocano l’uno dopo l’altro lungo una linea che non è possibile ripercorrere all’indietro, e non importa se la linea sia retta, curva o addirittura a spirale – l’essenziale è che si eviti la chiusura del cerchio. Se il cerchio si chiude non ci sono più un “prima” e un “dopo”, perché girando in circolo ogni “prima” viene a trovarsi inevitabilmente dietro a un “dopo” che diventa così, automaticamente, “prima”: è questo tempo “ciclico”, quello che non conosce e annulla la storia. […] Il tempo ciclico, in cui tutto si ripete esattamente, non esiste nella nostra realtà, esiste solo nel mito: si tratti del mito delle società primitive o di quello creato da filosofi come Crisippo e Nietzsche. Il “tempo mitico” non è soltanto astorico, ma una “rivolta contro il tempo concreto, storico”, una “volontà… di rifiutare il tempo concreto…. Ostilità a ogni tentativo di ‘storia’ autonoma; queste parole che Mircea Eliade riferisce alle “società tradizionali” non valgono solo per queste».18
L’esito di questi studi è quello di far emergere non tanto un’idea astratta di «tempo» e di «storia» decontestualizzata dalla logica del racconto biblico, bensì intercettarne l’intenzionalità retorica che va a configurare ideologie storiografiche precise o, altrimenti dette, «teologie della storia» al plurale: «Dal punto di vista storico non è dunque possibile parlare di una concezione storica biblica (vetero-testamentaria) o di una idea centrale del pensiero storico ebraico; dobbiamo parlare piuttosto della visione storica di un singolo libro o di un gruppo di libri che, nella forma attuale, sono stati chiaramente concepiti come un complesso unitario».20
. Il «tempo del racconto» non corrisponde al funzionamento del «tempo cronologico» o «storico», ma risponde alle leggi stesse della narrazione. Con analessi e prolessi e molteplici altre variazioni rispetto alla fenomenologia del temporalità cronologica, il tempo narrativo non sottostà né alle regole del tempo mitico né a quelle della successione ordinata degli eventi nella storia: la creatività narrativa esercita una forza trasformante la stessa realtà. 21 In questi ultimi decenni, il contributo offerto dagli studi letterari e da quelli direttamente rivolti al testo biblico è amplissimo e ha provocato il nascere di una formulazione alternativa dell’idea di «tempo» e di «storia» all’interno della letteratura biblica. Tra tutti, chi ha maggiormente contribuito ed influenzato gli studi biblici in questa direzione è stato Paul Ricoeur
La volontà di stabilire una connessione diretta e causale tra strutture della lingua e strutture del pensiero è apparsa da subito come un’impresa tanto avvincente quanto pericolosamente fuorviante. La divaricazione provocata tra la riflessione operata sul lessico appartenente al campo semantico del «tempo» e della «storia» e l’articolazione di un pensiero sistematico, richiede una rinnovata via d’uscita dall’impasse che ha visto nell’opera di J. Barr la più radicale denuncia, quella di una teologia biblica autoreferenziale in quanto fondata sulla struttura dei significati teologico-lessicali pregiudizialmente veicolati.
e studia la forma del discorso narrativo come naturalmente atta a postulare e a strutturare, in actu exercitu, le concezioni della temporalità e della stessa storia. La narrazione è, per eccellenza, la forma di discorso che meglio rappresenta l’esperienza del flusso degli eventi lungo la storia. Mimesis della scena storica, il racconto narrativo appare così il luogo più idoneo per studiare tali concezioni. Considerando che la sezione testuale più ampia, sia dell’Antico come del Nuovo Testamento, è rappresentata da testi narrativi e che i restanti prevedono, per la loro comprensione, riferimenti che si fondano per lo più su quei racconti, è allora possibile ipotizzare una teoria del «tempo» e della «storia» anzitutto a partire dalla dimensione narrativa biblicamente configurata.
relazione più stretta tra la modalità tipica del narrare la storia in racconto e un approccio più sintetico e riflessivo, rappresentato dagli stessi testi dei discorsi profetici e sapienziali.
La forma narrativa diventa in questo senso la matrice fondamentale del pensare il «tempo» e la «storia» nella Bibbia.
In tale prospettiva viene meglio definito anche l’oggetto della ricerca: invece di focalizzare l’obiettivo sull’Israele storico o sulle culture del vicino oriente o, ancora, sul cristianesimo del primo Autore: don Silvio Barbaglia – Copyright, All rights reserved © Pag. 15 secolo, l’attenzione viene portata sui significati di «tempo» e di «storia» prodotti, descritti e documentati da quei testi che una tradizione credente ha riconosciuto come sacri e canonici.
Sovente, nel mondo accademico, si apre una discussione, si dibattono posizioni, ci si confronta, ci si copia, ci si cita... Così facendo, nasce un «gergo» tipico della disciplina, il «gergo esegetico»; tale fenomeno abbraccia non solo i termini tipici o tecnici di settore, bensì la «forma mentis». Tale «forma mentis» stabilisce un contesto di discussione, di confronto, apre tradizioni di ricerche esegetiche.
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