L’uno si lega all’altro: il Deleuze sessantottino e il Deleuze metafisico fanno parte di un continuum coerente, disposti come sono sullo stesso piano d’immanenza. Ed è così che Ronchi sottolinea come la tesi dell’univocità dell’Essere sia a un tempo una tesi ontologica e politica dato che è stato proprio il 68 a rivolgere “uno sguardo indiscreto a questo piano di immanenza assoluta nel quale le gerarchie stabilite tra gli enti, i loro differenti gradi di partecipazione all’essere, i loro rapporti regolati da leggi immutabili (categorie) sono solo degli ‘effetti’ ottici, prodotti da dispositivi di potere che ‘striano’ il piano per renderlo governabile”. Oggi, che il 68 ha trovato i propri rinnegati, sia a destra sia a sinistra, sia in Francia sia in Italia, sarebbe bene ricordarsi di questo filosofo che solitario fino alla propria morte ha continuato a ribadire – contro tutte le opinioni correnti, che a partire dagli anni Ottanta a oggi sono solo aumentate – che quell’evento non è stato immaginario (l’anti-autoritarismo giovanilistico), né simbolico (la crisi dell’autorità paterna) come tutti vogliono farci credere: ma che ha invece visto introdursi nella storia “un reale puro”. Perché per credere ancora nonostante tutto al reale di questo mondo – e all’assenza di ogni trascendenza o come direbbe Lacan di ogni metalinguaggio – c’è bisogno di lucidità, disperazione e gioia. E forse anche dell’indifferenza disumana che solo un’ontologia dell’univocità può darci.
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