Linea retta egizia 
Linea organica assira o greca
Linea inglobante o sovrafenomenica cinese
Lungi dal ricercare vecchi e nuovi soggetti universali, si dovrebbero piuttosto indagare i processi, tesi e conflittuali, di produzione delle condizioni comuni che possono indicare la via per nuovi modi di abitare il mondo. Tutto questo, nel tempo dell’“antropocene”, è forse più urgente che mai[66].
Ed è facile vedere che stiamo parlando di elementi che, lungi dal caratterizzare soltanto il capitalismo “storico”, sono piuttosto costitutivi del capitale globale contemporaneo. Una volta liberato dal legame unilaterale con il lavoro salariato “libero” e considerato come vita nella sua veste potenziale, il concetto di forza lavoro può essere d’altro canto perfettamente utilizzato per dar conto della “cattura” del valore prodotto dalla cooperazione sociale al di fuori del processo di produzione, che sempre di più caratterizza il capitale finanziario; esso consente inoltre di comprendere criticamente la diffusione del lavoro non pagato nel contesto dei contemporanei processi di precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro[63].


se teniamo a mente la definizione marxiana di forza lavoro, e in particolare il fatto che essa sia inseparabile dal suo “portatore”, ovvero dal corpo vivente del proletario, è piuttosto facile capire che è logicamente impossibile vendere la forza lavoro come una merce sul “mercato del lavoro”. L’atto stesso della vendita presuppone l’alienazione di un bene, e questa alienazione avviene soltanto nel caso che Marx tentava di rimuovere dalla dinamica standard del capitalismo moderno, cioè nel caso della… schiavitù[60]. Certo, Marx notoriamente aggiunge:

“la continuazione di questo rapporto esige che il proprietario della forza lavoro la venda sempre e soltanto per un tempo determinato; poiché se la vende in blocco, una volta per tutte, vende se stesso, si trasforma da libero in schiavo, da possessore di merce in merce”[61].
Mediante la distinzione tra forza lavoro e lavoro Marx credeva di avere finalmente gettato le fondamenta di una teoria del rapporto tra capitale e lavoro in grado di cogliere tanto le peculiarità del capitalismo moderno, basato sul lavoro “libero” e non sulla schiavitù, quanto la realtà di sfruttamento implicata in quella relazione. Contrariamente all’indifferenza professata da molti “marxisti” nei confronti del diritto, considerato un elemento meramente “sovrastrutturale”, esso giocava un ruolo essenziale nell’argomentazione marxiana. “Affinché il possessore della forza lavoro la venda come merce”, scrive Marx,
“egli deve poterne disporre, quindi essere libero proprietario della propria capacità di lavoro, della propria persona. Egli si incontra sul mercato con il possessore di denaro e i due entrano in rapporto reciproco come possessori di merci, di pari diritti, distinti solo per l’essere uno compratore, l’altro venditore, persone dunque giuridicamente eguali”[59].
Il proletario, scrisse Engles nel 1845 nella Condizione della classe operaia in Inghilterra, è “di diritto e di fatto schiavo della borghesia, la quale ha su di lui poteri di vita e di morte”
convincentemente mostrato come i concetti marxiani di classe operaia e lavoro siano stati costruiti su di un singolo segmento della popolazione lavoratrice mondiale e non siano dunque in grado di cogliere le differenziate realtà e soggettive esperienze del lavoro dipendente nel contesto capitalistico. Roth e van der Linden sottolineano inoltre quanto bisognerebbe essere consapevoli del fatto che anche la cruciale distinzione tra lavoro e attività nemmeno esiste in numerose lingue non europee, rendendo problematico un loro uso “trans-culturale” – il che naturalmente non implica che ciò sia impossibile
Questo è il motivo per cui il concetto di forza lavoro, in questa mia lettura che è al contempo dentro e oltre Marx, non ci ricondurrà né ad un astratto concetto di lavoro né ad un immagine universale della classe operaia come soggetto politico omogeneo. Tanto l’offerta di forza lavoro quanto il suo sfruttamento da parte del capitale possono aver luogo attraverso una molteplicità di percorsi – che corrispondono all’eterogeneità dei modi di cattura e di sussunzione sui quali ho insistito in precedenza. Tutto ciò comporta che sia possibile utilizzare il concetto di forza lavoro senza riferirsi necessariamente ed esclusivamente al contratto di lavoro salariato e all’astratto e universale modello del “soggetto titolare di diritti”.
Ciò che rende il concetto di forza lavoro particolarmente importante nel contesto della nostra riflessione sulla costituzione del soggetto è il fatto che essa illumina ulteriormente il necessario processo di separazione (di astrazione) delle “capacità fisiche e mentali” dal loro “contenitore” (il “corpo vivente”) che logicamente precede il rapporto capitalistico di produzione. Questo processo di separazione taglia ed attraversa i corpi umani e le “anime” (“cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc. umani”, per citare ancora Marx)[55] nella scena della cosiddetta “accumulazione originaria”. Tuttavia una lettura “non-storicista” di questa scena ci ha già condotti a rinvenire le tracce della sua continua ripetizione lungo l’intero corso dello sviluppo capitalistico. Per quanto la tensione tra vita e morte (con il “lavoro morto” accumulato nella forma del capitale che impone la propria norma astratta per “vampirizzare” il vivente) risulti ora incorporata nel concetto di forza lavoro, il lavoro vivo continua comunque a porsi come necessario eccesso – come un fuori costitutivo del rapporto di capitale stesso, si potrebbe forse dire.
Sebbene il concetto di “forza lavoro” sia stato spesso considerato (e gettato in discredito) come “economicistico”, ritengo che sottolinearne le dimensioni “biopolitica” e “potenziale” possa consentirci di sviluppare e approfondire ulteriormente l’analisi delle tensioni, della violenza e delle linee di antagonismo e conflitto che emergono dall’iscrizione della vita nel concetto di capitale. L’opposizione stessa tra approcci “economicisti” e “culturalisti” dovrebbe risultare superata una volta riconosciuta la cattura sulla vita, nonché il comando su di essa, nella sua forma potenziale, come trama essenziale su cui si distendono i rapporti sociali all’interno del capitalismo. E la produzione di soggettività potrebbe emergere come terreno privilegiato per le indagini critiche sul capitalismo, tanto dal punto di vista storico quanto da quello del nostro presente. L’opposizione tra denaro e forza lavoro è per Marx, come sappiamo, l’opposizione tra due modalità di soggettivazione interamente differenti: quella in cui la relazione del soggetto con il mondo è mediata dal “potere sociale” accumulato nella forma del denaro e quella in cui la relazione del soggetto con il mondo dipende dalla sua “potenza”. Considerati sotto questa luce denaro e forza lavoro, il confine stesso tra economia e cultura sembra vacillare[54].
Ciò che mi interessa in questo contesto è il fatto che il concetto di forza lavoro riassume in sésia il processo di astrazione dispiegato dal capitale nel processo di mercificazione sia la molteplicità intrinseca della “vita”. In un certo modo la tensione e lo scontro tra lavoro astratto e lavoro vivo viene re-inscritta nel concetto di forza lavoro, che è già “abitato” dal capitale tramite la forma merce. Ora però, coma ha sottolineato in modo particolare Paolo Virno nella sua analisi della natura “biopolitica” della forza lavoro, la molteplicità della vita si presenta come potenza, distinta dal lavoro effettivo[51]. “Per forza‑lavoro o capacità di lavoro”, scrive Marx, “intendiamo l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente di un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere”[52]. La distinzione tra forza lavoro e lavoro è cruciale per la fondazione della teoria marxiana dello sfruttamento, dal momento che essa getta luce sullo scarto tra il contratto, nel quale la forza lavoro è mercificata e scambiata con un salario, e l’“esercizio” e il “consumo” del suo valore d’uso nel processo lavorativo (nel “segreto laboratorio della produzione”), laddove è prodotto un valore maggiore di quello che viene remunerato per mezzo del salario[53].
Tuttavia, per quel mi riguarda tendo a leggere la sezione sulla vita nella Logica di Hegel in un modo leggermente diverso da quello proposto da Chakrabarty. Ciò che vorrei sottolineare è l’enfasi hegeliana sul dolore come “il privilegio delle nature viventi” [das Vorrecht lebendiger Naturen]”: è attraverso il dolore, aggiunge Hegel, che le nature viventi scoprono di essere “in sé la negatività di loro stesse” e che “questa loro negatività è per loro, ch’esse si mantengono nel loro esser altro”[48]. Questa è la ragione per cui, come argomentato da Eugène Fleischmann nella sua interpretazione della Logica, Hegel può scrivere nell’Enciclopedia che la morte – accanto al suo essere minaccia di “smembramento” del corpo vivente – è anche la sua “verità”, dal momento che “la morte della vitalità singolare soltanto immediata è il venir fuori dello Spirito [das Hervorgehen des Geistes]”[49].
Su tutti e tre i livelli che ho distinto schematicamente possiamo tracciare le storie di lotta e di resistenza (centralmente organizzate o autonome che siano), producendo interruzioni e modificazioni all’interno dello “sviluppo” capitalistico. Tutto questo ci conduce, come ha sostenuto ad esempio John Chalcraft, alla necessità di “pluralizzare il capitale”. Concordo con lui sul fatto che i “molteplici regimi di produzione e sfruttamento” che compongo il capitalismo storico e quello contemporaneo debbano essere indagati al di là di ogni pregiudizio “economicistico”, dal momento che la loro costruzione si basa “non solo sulla forma merce ma anche sulla guerra, lo stato, l’edificazione di imperi, la lotta politica, la cittadinanza, le relazioni capitale/lavoro, la sindacalizzazione, il razzismo, la questione di genere e così via”[44]. Ciononostante, questa enfasi sull’elemento di molteplicità e pluralità non dovrebbe spingerci a sottovalutare o addirittura a eludere il momento di unità che inerisce essenzialmente tanto al concetto quanto alla logica del capitale, ciò a cui Gilles Deleuze e Felix Guattari si riferiscono col termine “assiomatica”[45]. Essa si rifà tanto alla necessità di tradurre l’attività umana nel linguaggio del valore attraverso la “griglia ermeneutica” del lavoro astratto, quanto all’insieme di relazioni sociali che emergono da questa necessità.
“La vita ci offre una molteplicità, senz’altro infinita, di processi che sorgono e scompaiono in un rapporto reciproco di successione e di contemporaneità, ‘in’ noi ‘al di fuori di’ noi”, scrisse Max Weber nel 1904. E anche se ci concentriamo su un singolo “oggetto” nel tentativo di afferrarlo completamente, aggiungeva in un certo spirito spinoziano, l’essenza della sua singolarità è evanescente dal momento che la molteplicità degli oggetti che lo costituiscono (“l’assoluta infinità di questa vita molteplice”) tende a far esplodere la sua unità e a frustrare il nostro tentativo di descriverlo una volta per tutte. C’è un elemento di arbitrarietà irrazionale (Weber direbbe di “fede”) nella costituzione stessa di qualsiasi “oggetto di ricerca”[43].
In primo luogo, abbiamo la storia modellata dall’interpellazione del capitale, che corrisponde alla necessità del capitale di utilizzare il lavoro astratto come “griglia ermeneutica” e come misura finalizzata alla “interpretazione” dell’attività umana e alla sua traduzione nel linguaggio del valore. In secondo luogo, abbiamo la storia modellata dall’annodarsi cangiante delle molteplici modalità di sussunzione del lavoro al capitale che caratterizzano eterogenee costellazioni – storiche e geografiche – del capitalismo. In terzo luogo abbiamo la storia modellata dall’eterogeneità costitutiva del lavoro vivo, che si cristallizza in mobili formazioni politiche, sociali e culturali e che tuttavia rimane aperta a quell’elemento di singolarità che pone una sfida radicale alla possibilità stessa della rappresentazione storica, teorica e politica.
La posta in gioco di questi incontri è la violenta concretizzazione di ciò che Chakrabarty chiama “l’ermeneutica del capitale”, l’imposizione del lavoro astratto in quanto misura del valore e in quanto aspetto centrale della determinazione del “modo in cui il capitale interpreta l’attività umana”[
È ad esempio di particolare importanza rilevare che il concetto di “lavoro astratto” è una delle condizioni essenziali che consentono di immaginare e rappresentare l’unità tra i “lavoratori di tutto il mondo”, mentre l’indifferenza verso qualsiasi tipo specifico di lavoro che lo costituisce crea lo spazio per una delle più memorabili descrizioni dell’antagonismo che permea la società capitalistica: cioè il fatto che il lavoro sia al contempo “la miseria assoluta come oggetto” e “la possibilità generale della ricchezza come soggetto e come attività”
I lavoratori subalterni, per usare un’espressione cara a van der Linden, “costituiscono un gruppo variegato, che comprende schiavi, servi e mezzadri, piccoli artigiani e salariati. Ritengo che quel che gli storici del lavoro dovrebbero sforzarsi di comprendere sia proprio la dinamica storica di questa ‘moltitudine’”
la figura del lavoratore invocata nella sua [di Marx] esposizione del capitale era quella di una persona appartenente a una società nella quale la nozione borghese di uguaglianza era inscritta nella cultura”
“Nella storia degli Stati Uniti”, scrive Lowe nel suo Immigrant Acts, “il capitale ha massimizzato i suoi profitti non rendendo il lavoro ‘astratto’, ma precisamente attraverso la produzione sociale di ‘differenza’ […], di una differenza segnata da razza, nazione, origine geografica e genere”
Dividersi cambiando natura

Osservazione vs contemplazione 
apertura al mondo uguale libertà nella terminologia postmetafisica
Gehlen ipertrofia morale delle cosietà liberaldemocratichwe
capacità di ideazione e linguaggio non intelligenza o uso di stuermenti
Foucault ha cosí mostrato come, in una società disciplinare, i dispositivi mirino attraverso una serie di pratiche e di discorsi, di saperi e di esercizi alla creazione di corpi docili, ma liberi, che assumono la loro identità e la loro “libertà” di soggetti nel processo stesso del loro assoggettamento.


HEIDEGGER

Nelle lezioni del 1929-1930: "Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-finitezza-solitudine", il filosofo sviluppa metodicamente la triplice tesi -

«la pietra è senza mondo»,

«l'animale è povero di mondo»,

«l'uomo è formatore di mondo» -

come filo conduttore per la chiarificazione dei concetti di «mondo» e «finitezza» .

L'analisi filosofica è qui interamente orientata sulle ricerche della biologia e della zoologia contemporanee, in particolare su quelle di Hans Driesch, di Karl von Baer, di Johannes Muller e, soprattutto, del suo scolaro Jakob von Uexkull. Non soltanto,infatti, le ricerche di Uexkull sono definite esplicitamente "la cosa più fruttuosa che la filosofia possa far propria della "biologia oggi dominante", ma il loro influsso sui concetti e sulla terminologia delle lezioni è anche più ampio di quanto Heidegger stesso riconosca, scrivendo che le parole di cui egli si serve per definire la povertà di mondo dell'animale non esprimono nulla di diverso da quanto Uexkull intende coi termini Umwelt e "innenwelt (Heidegger 1983,383). Heidegger chiama das Enthemmende, il disinibitore,ciò che Uexkull definiva "portatore di significato" (Bedeutungstrager, Merk-maltrdger) e Enthemmungsring, cerchio disinibitore, ciò che lo zoologo chiamava Umwelt, ambbiente. . L'animale è chiuso nel cerchio dei suoi disinibitori proprio come, secondo Uexkull, nei pochi elementi che definiscono il suo mondo percettivo. Per questo, come in Uexkull, l'animale "se entra in relazione con altro, può incontrare solo ciò che colpisce
l'esser-capace e che lo mette così in moto. Tutto il resto non è a -priori in grado di penetrare nel cerchio dell'animale" (Heidegger 1983, 369).
Il modo di essere proprio dell'animale, che definisce il suo rapporto col disinibitore, è lo stordimento (Benommenheit}. In quanto è essenzialmente stordito e integralmente assor- bito nel proprio disinibitore, l'animale non può veramente agire (handeln} o avere una condotta (sich verhalten) rispetto ad esso: può solo comportarsi {sich benehmen). Lo stordimento è la condizione di possibilità grazie a cui l'animale, secondo la sua essenza, si comporta in un ambiente, ma mai in un mondo ". Come esempio dello stordimento, che non può mai aprirsi a un mondo, Heidegger riferisce l'esperimento(già descritto da Uexkiill) in cui un'ape viene posta in laboratorio davanti a una coppetta piena di miele. Se,dopo che l'ape ha cominciato a succhiare, si recide l'addome dell'ape, essa continua tranquillamente a succhiare mentre si vede il miele scorrere via dall'addome aperto. Ciò mostra in modo convincente che l'ape non constata affatto che c'e' troppo miele. Non costata ne questo ne - cosa che sarebbe ancora più ovvia - la mancanza del suo addome. Neanche per idea, bensì continua la sua pratica istintuale [Treiben], proprio perchè non constata che c'è ancora miele. Piuttosto, essa è semplicemente assorbita nel cibo. Questo essere assorbita è possibile soltanto dove è presente un istintivo"verso".Questo essere assorbito in un tale essere sospinto esclude al tempo stesso la possibi- lità di constatare un essere-disponibile [Vorhandensein}. Proprio l'essere assorbito dal cibo impedisce all'animale di porsi di fronte ad esso. (Heidegger 1983, 352-53)
E a questo punto che Heidegger si interroga sul carattere di apertura proprio dello stordimento(...) A che cosa è aperta l'ape, che cosa conosce l' animale quando entra in rapporto col suo disinibitore?Egli scrive che non si ha qui un percepire {vemehmen), ma solo un istintivo comportarsi {benehmen}, in quanto all'animale è sottratta {genommen) "la stessa possibilità di percepire qualcosa in quanto qualcosa, e non qui e ora, ma sottratta nel senso di non data affatto" (ihid., 360).
stordimento \Benommenheit\ dell'animale significa dunque: essenziale sottrazione {Ge-nommenheit} di ogni percezione di qualcosa in quanto qualcosa e perciò: lo stordimento dell'animale significa dunque innanzi tutto il modo di essere in conformità al quale, all'ani- male, nel suo riferirsi ad altro, è, impedita la possibilità di mettersi in relazione e riferirsi ad esso, , in quanto disponibile, in quanto essente. Proprio in quanto all'animale ? sottratta questa possibilità di percepire in quanto qualcosa ciò a cui esso si riferisce, proprio per questo esso può essere assorbito dall'altro in questo modo assoluto. (Heidegger 1983, 360)
Nello stordimento l'ente non è rivelato [offenbar], non è dischiuso, ma appunto per questo neppure chiuso. Lo stordimento sta al di fuori di questa possibilità. Non possiamo dire: l'ente è chiuso all'animale. Ciò potrebbe essere soltanto se vi fosse una qualche possibilità, per quanto minima, di apertura. Lo stordimento dell'animale lo pone invece essenzialmente al di fuori della possibilità che l'ente gli sia dischiuso oppure chiuso. Lo stordimento è l'essenza dell'animale significa: l'animale, in quanto tale, non si trova in una rivelabilità dell'ente. Ne il suo cosiddetto ambiente, ne esso stesso sono rivelati in quanto enti. La difficoltà proviene qui dal fatto che il modo d'essere che deve essere afferrato non è ne dischiuso ne chiuso,cosicchè l'essere in rapporto con esso non è propriamente definibile come una vera relazione, come un aver a che fare. Poichè a causa del suo stordimento e della totalità delle sue capacità l'animale è sospinto senza sosta in una molteplicità istintuale, esso manca fondamentalmente della possibilità di entrare in rapporto con l'ente che esso stesso non è, come con l'ente che esso stesso è.
In virtù di questo esser sospinto senza sosta, l'animale si trova per così dire sospeso tra se stesso e l'ambiente, senza poter sperimentare in quanto ente ne l'uno ne l'altro. E, tut- tavia, questo non-avere la rivelabilità dell'ente è, in quanto sottrazione della rivelabilità, nello stesso tempo un esser-assorbito da... Dobbiamo dire allora che l'animale è in rapporto con..., che lo stordimento e il comportamento mostrano un'apertura per... Per che cosa? Come deve essere caratterizzato ciò che nell'apertura specifica dell'essere-assorbito si urta in qualche modo nell'esser- sospinto dello stordimento istintuale? (ihid.)
La definizione ulteriore dello statuto ontologico del disinibitore conduce nel cuore della tesi sulla povertà di mondo come carattere essenziale dell'animale. Il non poter aver-a-che-fare non è puramente negativo: esso è,infatti, in qualche modo una forma di apertura e, più precisamente, un'apertura che non svela, però, mai il disinibitore come ente.(...)Lo statuto ontologico dell'ambiente animale può essere a questo definito: esso è offen (aperto) ma non offenbar (svelato, lett. apribile). L'ente, per l'animale, è aperto ma non accessibile; è, cioè, aperto in una inaccessibilità e in un'opacità - cioè, in qualche modo, in una non-relazione.Questa apertura senza svelamento definisce la povertà di mondo dell'animale rispetto alla formazione di mondo che caratterizza l'umano. L'animale non è semplicemente privo di mondo perchè, in quanto è aperto nello stordimento, deve - a differenza della pietra, priva di mondo -farne a meno, mancarne {entbehren}, può cioè essere determinato nel suo essere da una povertà e da una mancanza: proprio perchè nel suo stordimento l'animale ha relazione con tutto ciò che incontra nel cerchio, disinibente, proprio per questo non si trova dalla parte dell'uomo, proprio per questo non ha mondo. Tuttavia, questo non aver mondo non sospinge neppure - e per una ragione essenziale - l'animale dalla parte della pietra. Infatti l'istintivo esser-capace dello stordimento assorbito, cioè dell'essere assorbito dal disinibente, è un essere aperto per..., seppure con il carattere del non-aver-a-che-fare. La pietra di contro non ha nemmeno questa possibilità. Infatti non-aver-a-che-fare presuppone un essere-aperto. L'animale possiede nella sua essenza questo essere aperto. L'essere aperto nello stordimento è un avere essenziale dell'animale. In virtù di questo avere esso può fare a meno essere povero, essere determinato nel suo essere dalla povertà. Questo avere, certo, non è avere un mondo, ma un essere assorbito nel cerchio disinibente-è un avere il disinibito- re. Ma poichè questo avere è l'essere aperto per il disinibitore, e tuttavia a questo essere aperto è sottratta proprio la possibilità dell'aver rivelato il disinibitore in quanto ente, per questo l'avere dell'essere aperto è un non-avere, e precisamente un non-avere un mondo, se è vero che al mondo appartiene la rivelabilità dell'ente come tale. (Heidegger 1983, 391-92) I'animale è, insieme, aperto e non aperto - o meglio, non ne una cosa ne l'altra: aperto in un non-disvelamento che,per un verso, lo stordisce e disloca con veemenza inaudita nel suo disinibitore, e, per un altro, non svela in alcun modo come un ente ciò che pure lo tie- ne così avvinto e assorbito. A questo punto Heidegger può evocare la trattazione della noia che l'aveva occupato nella prima parte del corso e mettere inaspettatamente in risonanza lo stordimento dell'animale
e la Stimmung fondamentale che aveva chiamato "noia profonda" :
Verrà in luce come questo stato d'animo fondamentale e tutto ciò che vi è racchiuso siano da delineare e distinguere nei confronti di ciò che abbiamo affermato come essenza dell'animalità rispetto allo stordimento. Questa delineazione sarà per noi tanto più decisiva perchè proprio l'essenza dell'animalità, lo stordimento, viene apparentemente a trovarsi in una vicinanza estrema a quanto abbiamo discusso come elemento caratteristico della noia profonda, e abbiamo denominato essere incantati-incatenati dell'esserci all'interno dell'ente nella sua totalità. Naturalmente verrà in luce che questa vicinanza estrema delle due costituzioni essenziali è solo ingannevole, e che tra di esse c'è un abisso che non può venire superato da alcuna mediazione. Ma allora l'intero confronto delle due tesi ci diverà improvvisamente chiarissimo, e così l'essenza del mondo. (Heidegger 1983,409)
al mondo appartiene la rivelabilità dell'ente come tale.
sottratta proprio la possibilità dell'aver rivelato il disinibitore in quanto ente
l'istintivo esser-capace dello stordimento assorbito, cioè dell'essere assorbito dal disinibente
nel suo stordimento l'animale ha relazione con tutto ciò che incontra nel cerchio, disinibente, proprio per questo non si trova dalla parte dell'uomo, proprio per questo non ha mondo.
Poichè a causa del suo stordimento e della totalità delle sue capacità l'animale è sospinto senza sosta in una molteplicità istintuale, esso manca fondamentalmente della possibilità di entrare in rapporto con l'ente che esso stesso non è, come con l'ente che esso stesso è.
Proprio in quanto all'animale ? sottratta questa possibilità di percepire in quanto qualcosa ciò a cui esso si riferisce
Minoranze sono pedine nella politica internazionale Almarik
da un processo di appropriazione e sincronizzazione di queste molteplici temporalità all’interno del tempo “omogeneo e vuoto” dello stato e del capitale. Di nuovo: la posta in gioco di questa tensione è la stessa produzione di soggettività
Johann Gottfried Herder scrisse ad esempio nel 1799: “In verità, ogni cosa che cambia possiede in sé la misura del proprio tempo […] Non ci sono due cose nel mondo che presentino la stessa misura temporale […] Possiamo perciò affermare, con espressione audace e tuttavia esatta, che un’infinita molteplicità di tempi coesiste nell’universo nello stesso tempo (es giebt also [man kann es eigentlich und kühn sagen] im Universum zu einer Zeit unzählbar viele Zeiten). Il tempo che immaginiamo come misura di ogni cosa è solo una proporzione delle nostre idee (ein Verhältnismaas unserer Gedanken), […] in un certo senso solo una visione (Wahnbild)”[15].
termine “assiomatica”[45]. Essa si rifà tanto alla necessità di tradurre l’attività umana nel linguaggio del valore attraverso la “griglia ermeneutica” del lavoro astratto, quanto all’insieme di relazioni sociali che emergono da questa necessità.
Divisione del lavoro
Ci sono forme di follia collettiva, una patologia dei gruppi, delle masse. Il singolo individuo ne é redponsabile come la singola cellula dello schizofrenico . Questo forse è ciò che spesso chiamiamo cultura . La vita stessa dell'animale culturale sembra essere pura follia .
La modernità è decodificazione 
LA FRASE DI PROUST:
UNA POLIFONIA MENTALE




 Mi accusano di essere enormemente prolisso,
e per quanto mi sforzi alla stringatezza,
per quanto mi tagli, per pesare meno,
la libbra di carne che pretendeva Shylock,
non riesco a stare nella misura richiesta

(Lettera dell' 11 ? maggio 1907 a
Robert de Montesquiou)




Se andiamo a curiosare nel forum interattivo allestito sul sito Web della casa editrice Penguin per discutere con i lettori ed i proustofili di tutto il mondo le difficoltà che comporta tradurre la Recherche in inglese, troviamo che uno dei primi interventi è quello di un lettore che si è precipitato a scrivere:

"Please, more full stops than in the Kilmartin translation. I lose track in some of those long sentences."

Torna subito in mente ciò che scrisse Jacques Madeleine nella sua relazione per la casa editrice Fasquelle alla quale era stata proposta la pubblicazione di Swann:

"...una frase che va avanti per quarantaquattro righe!"

Oggi però tutti i lettori e gli specialisti concordano nel riconoscere che esiste una "frase di Proust": lunga, dal respiro interminabile ma discreto, con tutte quelle subordinate che mettono a dura prova la nostra memoria, quella musica di allitterazioni che supplisce alle nostre difficoltà di fronte alle ramificazioni logiche...

Julia Kristeva, semiologa e psicoanalista, prende in esame proprio quella frase (chiamata "la suites des chambres") che tanto aveva esasperato Madeleine e scoraggiato molti altri dopo di lui ed alla fine di una quindicina di fittissime pagine di analisi del testo conclude dicendo:




Binaria ma in espansione, la frase proustiana integra molteplici subordinate che ritardano la chiusura della totalità logica e sintattica: sia risalendo verso i temi e gli items anteriori, sia amplificando i temi e gli items attuali.

D'altra parte, essa comprende incastri indefiniti che ne rendono ambiguo il senso.
Si può considerare il ritardo e l'ambiguità sintattica come l'equivalente, sul piano dei processi secondari, di questa apertura della parola-segno verso ciò che Proust chiama una "impressione", che precede e va oltre i segni a beneficio della sensazione.

Scrivere l'impressione di una presenza della sensazione, al di qua e al di là del linguaggio, con gli strumenti stessi della sintassi: questo il progetto "involontario" della frase proustiana, che produce "grammaticalmente" l'opera "stilistica" della metafora.



La frase di Proust è una polifonia mentale, sonora e grafica al tempo stesso.
La frase musicale presente nello stile di Bergotte come nelle variazioni di Vinteuil ispira la stessa sintassi proustiana.



Si potrebbe descrivere la frase di Proust negli stessi termini con cui
Proust ha descritto la frase di Chopin:




"Nella sua giovinezza aveva appreso ad accarezzare le frasi dal lungo collo sinuoso e smisurato di Chopin, così libere, così flessibili, così tattili, che s'iniziano cercando e provando il loro posto fuori e ben lungi dalla direzione di partenza, ben lontano dal punto cui si credeva giungesse il loro tocco, e che si librano in quella lontananza fantastica solo per tornare più deliberatamente, - in un ritorno più premeditato, con precisione più grande, come su un cristallo che risuoni fino a strappare un grido, - a colpirci nel profondo del cuore."

La strada di Swann



Fuggitiva, spostata e distesa, la frase proustiana è la struttura di queste intermittenze del cuore di cui ci libera, parallelamente ed esplicitamente, il senso.

--- Julia Kristeva
Forse l'immobilità delle cose intorno a noi è loro imposta dalla nostra certezza che sono esse e non altre, dall'immobilità del nostro pensiero nei loro confronti.
Capitalismo 
Omogeneità qualitativa
Concorrenza quantitativa 
Il flusso del lavoro nudo fa il popolo , come il flusso di capitale da la terra e la sua attrezzatura . Deleuze Guattari pg 632
Patriottismo fedeltà obbedienza coraggio comprensione 
le possibili situazioni dell'umano convivere del tempo
Oggetto qualunque soggetto universale
L'opera prefigura l'avvento di una societa-rete, in cui comunicazione, cultura e potere, viaggiano per 'radici rizomatiche' anziche modelli piramidali.
Come scriveva Kojève sulla scia di Hegel, il nome uccide la cosa nel momento in cui la eleva all’universalità del concetto.
Il capitale capitalizza
La base é l'impero arcaico
Le fonti dell'epoca sono tuttavia contraddittorie. Jacques Antoine Dulaure afferma che nel mese di novembre era stata costituito a Londrail Club de la Révolution de France, che aveva inviato all'Assemblea Nazionale una lettera di felicitazioni per il lavoro svolto. Di conseguenza «i membri del comitato bretone concepirono il progetto di formare a Parigi una società sull'esempio londinese, dandogli basi più solide e più estese di quel comitato».[1] Anche nei suoi Esquisses historiques Dulaure conferma la nascita del club giacobino su iniziativa dei deputati bretoni.[2]
alla reazione
proust dalla parte di swann
azione reazione azione
Originalità fascino delicatezza e forza 
È talento 
Violenza capitalismo 
Marx
Stock
L'accumulazione originaria che rende possibile poi
Il modo di produzione 
Lo stato 
Costruzione violenza di spazio omogeneizzato ,colonizzato
sicurezza, la tranquillità e la prosperità
Esistenza primitivi come soppravvivenza
Peso materia vs intenzione e forma 
L’illuminismo ritorna alla teologia tripartita di Varrone, modificandola in prospettiva deista.
Vico definisce la propria scienza nuova come «teologia civile ragionata della provvidenza divina», quindi come una conoscenza che permette agli uomini di comprendere le modalità attraverso cui l’intelligenza divina provvede alla prosperità delle società umane e al loro parallelo incivilimento (Principi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, 1744).
e la verità della teologia naturale
teologia tripartita: mitica, fisica e politica per i greci, leggendaria, naturale e civile per i latini.
Nell'affermazione di questo impero marittimo mondiale si nasconde, secondo Schmitt, il germe della rovina, perché conduce alla trasformazione del diritto fra gli Stati in diritto privato internazionale, cioè in diritto commerciale, e introduce una forma di moralismo universalistico, politicamente pericoloso, perché fa appello al concetto discriminatorio di guerra giusta. Questo vuol dire che sta giungendo alla fine, secondo Schmitt, l'epoca della statualità e, con il concetto di Stato, si dissolvono le distinzioni fra diritto pubblico e diritto privato e fra diritto statale e interstatale. Ma con il venir meno del freno della statualità, cadono le barriere frapposte dalla hobbesiana guerra di tutti contro tutti. La guerra moderna, dice Schmitt, in Teoria del partigiano (1963), è una guerra partigiana, cioè ha la sua radice nelle ideologie e non trova più limiti nello Stato, anzi si radica all'interno dello Stato e della società. Il partigiano, infatti, non difende la terra da un'occupazione, ma conduce una lotta in nome di una propria verità ideologica in tal modo, egli sostituisce al nemico pubblico un nuovo nemico privato e regredisce, pertanto, alla barbarie. Questa crisi della politicità è in rapporto, secondo Schmitt, con il predominio dell'economia e della tecnica nel mondo contemporaneo, dove lo Stato si trova ridotto ad assolvere una semplice funzione puramente burocratica e organizzativa, al servizio del dominio economico sull'uomo. In tal modo anche il pensiero di Schmitt si conclude con una critica alla modernità, in sintonia con pensatori ai quali si sentiva vicino, come, ad esempio, Jünger e Heidegger.
Stati continentali, fondati sull'identità collettiva della nazione e sulla difesa della patria e dell'integrità territoriale.
In opposizione alle pretese universalistiche delle democrazie occidentali e del bolscevismo, egli riprese da Hitler la nozione di spazio vitale, che consentiva di giustificare l'espansionismo militaristico della Germania.
Schmitt chiarisce a più riprese come il sovrano non sia altro che una secolarizzazione del Dio cristiano: infatti, come Dio crea il mondo ex nihilo sulla base della sua volontà (e non della ragione), così il sovrano crea dal nulla l’ordine giuridico, prendendo una decisione che scaturisce dalla volontà e non dalla ragione. È in questo senso che Schmitt parla, in Teologia politica, del “Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore”. Come diceva Hobbes, il primo decisionista della storia, “auctoritas, non veritas, facit legem”.
potere su ordine e caos
La normalità è prodotta dalla decisione sovrana, che instaura l’ordine: e, a sua volta, la decisione presuppone un’organizzazione concreta di potere, un’istituzione. Per Schmitt, la costituzione non è un mero insieme di leggi costituzionali, che necessitano di un ordine sovrano per diventare attive.
non è la norma a creare la normalità, ma, piuttosto, è la normalità a rendere possibile l’attuarsi della norma.


Tutte le decisioni politiche avvengono in questa maniera: la decisione come tipo originario fonda sempre un ordine a partire da una minaccia che ha una valenza intrinsecamente politica.

schmitt
Il sovrano è colui il quale identifica i soggetti che connotano tale stato di eccezione e prende posizione a favore dell’uno e contro l’altro: in altri termini, egli sceglie chi è amico e chi è nemico
l’idea che la legge scaturisca dalla decisione
Per Schmitt, il punto di forza del decisionismo risiede nell’essere il momento di congiuntura tra l’elemento giuridico e quello politico, tra la volontà che pone ordine al caos e la ragione giuridica che conferisce una forma a tale ordine. Quest’ultimo è il prodotto di un’energia che mette ordine e che poi si cristallizza in una forma.


La costituzione dunque, non deriva da una normatività legale, ma dalla decisione politica di quelli che detengono il potere garantito costituzionalmente. La costituzione è inviolabile : neppure una maggioranza legale ha l'autorità per trasformarla in un nuovo tipo di ordinamento politico. Bisogna dunque che esista una forza neutrale al di sopra della molteplicità degli interessi antagonistici, la quale rappresenti la totalità del popolo tedesco e sia custode e garante della costituzione: essa deve essere un'autorità politica, che Schmitt identifica con il presidente della repubblica, nominato direttamente dal popolo e, perciò, indipendente da deboli maggioranze parlamentari e dotato del potere di sciogliere il parlamento e di indire nuove elezioni.

Una costituzione non deve mai offrire i mezzi legali per la propria distruzione, cosicchè il concetto di uguale possibilità per i partiti politici di acquisire legalmente il potere ha senso soltanto se quei partiti accettano la legittimità della costituzione. Altrimenti un partito anticostituzionale, una volta conquistato legalmente il potere attraverso libere elezioni, potrebbe usare la sua autorità legale per abbattere la costituzione. Se si vuole evitare questo, è necessario che al presidente spetti decidere quali gruppi o partiti politici non devono usufruire del principio dell'uguale possibilità di acquistare legalmente il potere; in tal modo, egli è il vero garante della costituzione.
Un mondo da cui fosse esclusa la possibilità della guerra esterna o della guerra civile, sarebbe privo della distinzione amico-nemico e, quindi, della dimensione del "politico".
schmitt
Il concetto politico , egli scorge nella distinzione amico-nemico la distinzione specifica: il politico rappresenta l'antagonismo più estremo. Il nemico non è colui con il quale si è in concorrenza sul piano economico o verso il quale si prova avversione e odio personale: nemico è solo quello pubblico, cosicchè la distinzione amico-nemico indica solo " l'estremo grado di intensità di un'associazione o dissociazione ".
carl schmitt
Alcolista deleuze
Il primo ripete l'ultimo 
L'ultimo è l'oggetto ricevibile prima del cambio di concatenamento 
Concentramento come valutazione dell'ultimo e ciclo o serie di oggetti