Perché l’immagine che ci rapisce è un’immagine viva, un’immagine in azione.

Una certa lentezza una certa viscosità della pittura rispetto alla musica

i sogni sono l'anima
leggere un sogno
o romanzo sognato
morte massimo concetrato di verità raggiunta
attimo che non esiste momento trapasso istante NULLO
lascito intuizione da sancho
muore il sognatore ma non i sognato rimane per sempre non trionfa sulla sua vita sulla morte ma con la mortalità muore l'autore
LE FORMULE CRISTIANI
cavalieri malinconici
lancillotto si dimentica di se andando a cavallo si perde
persival vede gocce sangue nella neve e oblia ogni realtà

oceanografia del tedio del vaneggiamento sogno intersogno
una sedia starse li mentre donc hisciotte malinconia mobile errabonda

malinconia portata in ingor per il mondo seducente di più è qualcosa che qualcuno porta con se nel mondo ingiuro per il mondo FORMA DI CONOSCIENZA FILO TEITMOLOGICO per capire il mondo


il suo mondo è il mondo della cavalleria
antinomia fra reale poetico
insinua il sopprannatirale in modo sottile

PASTORALI CAVALLERESCHI E FAVOLE DI PROGIONIA

PIù CHE UN ANTITOPO CONTRO QUELLE FINZIONI SEGRETO congedo NOSTALGICO


sovrapposizione immaginazione realtà
immaginazione letteraria senza limiti vs realismo

sancizzazione  chisciottizzazione

dualismo protagonista deuteragonista DUETTO

discorsi solenni ampioa portata
forte proverbi popolari audace nel deformare parole che non conosce

don fedele conezione ideali cavallereschi più alti leggi sdocità e stato solleva il cavaliere al dispora di tutti glia ltri uomini magnaimita più  cvalore ricchezza op potere
celefbrazione amor cortese platonico  e idealizzatyo
della donna una creatura da venerare

arme fuoco annulla valore personale

opinioni scrittore discorsi improvvisati

SANCHIO QUASI PEREFETTO CAVALIERE FILOSOFICO



la mancia in arabo terra secca
modo di comportasi legata al terirritorio significato azioni acuqistano rapporto col mondo in cui vive

vittime della letteratura
come madame bovary


Google seconda natura
L'informatica
La politica
Seconda natura
Per chi? Per tutti?

Blocchi =piani = territori= concatenamenti

Deterritorialozzazione = da un concatenamento ad un altro

Lottatori di sumo si accoppia l'infinita lentezza di un attesa e linfinuta velocità di un risultato

Faccio attenzione sol o a quel che si.muove
Il monvimento dell infinito solo.mediante evento affetto passione amore

La ragazza che è essere di fuga non può essere percepita

L'orecchio è un rotornello
La galassia lo è
La tempesta
Va vita

Antiepica
Crisi
Non saldi punti riferimento
Rifiuto abbandono sistema culturale ideologico dato certezze organizzato vita individuo nella vita collettività in modo perfetto anche se immaginario
Sistema cavalleria
Senza macchia ne.paura gira il.mondo raddrizzando i torti
Ideale rassicura sulla crisis continua della realtà.  Valori sicuri indubbi
Realtà disfa castello sabbia castello che.mette al sicura incertezza.sicurezza
Rifiuto cedere fede
Comico intreccio tragico
Comica
Come se il sistema sicurezza esistesse ancora
Combattere contro i mulini a vento
Bisgno tremendo avere sistema immagini cultura figure difenda dal niente
Combatte pagando il prezzo della sua follia per non cede r e al niente

l'enigma al servizio dellenciclopedia
la amacchina c'è ma non criptica ma narrativa
viaggi in molte direzioni
1 geografica
 giro mondo isola terra alla luna
2viaggio enciclopedico odissea sul ciclo del sapere incontrano i personaggi problemi devono capire imparare costruire li strumenti della loro salvezza
dietro questi due viaggi uno piùà lungo e libero quello iniziatico
esiste un uiltimo più nascosto e libero quello inizaitico
regola scrittori divertire insegnare iniziare


terra rimpicciolita più rapide ricerche e fuga ladro

previsione vittoria pratica teoria
borghesia scommesa denaro
corrispondenze numeriche

occupazione apparente avventure kilometria prigioniero mitologia di allora
romanzo sull'uso del denaro
sulle piccole spese gli uomini molto ricchi sono implacabili insieme grandi scommesse e sprechi

con il denaro compra il tempo filias fog
inconvenineti dai popoli selvaggi imprevedibili
compra regolarità percorribilità mondo attraverso il denaro
relatività tempo orologio passpartout


perfetto genitluomo i denaro non ha valore denaro neutralizzato per chi già ce l'ha
difesa asseto proprietario e neoimperialistico



Forza collettiva

Ultimo più nascosto e libero viaggio
Quello iniziatico
Regola divertire insegnare iniziare regola scrittori

Problema della forma
La veicolazione dei significati
Fotme dieyro se signidicatu stratificati
Problema della forma della non neutralità di ogni oggetto

Desiderare sciegliere soffrire abbandonate Ricominciare

Parlare in terza persona delle proprie preferenze

Sc rivereper frammenti
I frammenti solo allora delle.pietre sulla cirdpnferenza del cerchio
Mi sparpaglio intondo
Tutto il mio piccolo universo a pezzi
Al centro cosa?

Barthes

Diritto davanti ai frammenti del mondo : la preferenza

Secondo una posizione filosofica consolidata, fatto è ciò che è descritto da una proposizione (contingente) e che la rende vera. Da questo punto di vista, possiamo distinguere sostanzialmente tre tipi di fatti: stati di cose, processi edeventi. Un tipico stato di cose è quello descritto, per esempio, dalla proposizione (vera) la neve è bianca. Esempi tipici di processi ed eventi sono quelli descritti, rispettivamente, dalla proposizione nevica in un dato luogo e momento (un accadere continuativo entro un certo periodo di tempo) e dalla proposizione Bruto uccise Cesare (un accadere, o un aver luogo, in un determinato momento). Secondo G.H. von Wright (Norma e azione, 1963, ed. it. 1989), un evento può essere analizzato nei termini di una relazione fra stati di cose che si danno in due occasioni successive, cioè come il mutamento o la transizione dallo stato di cose che si dà in una certa occasione (stato iniziale) a uno stato di cose che si dà nell'occasione successiva (stato finale), ovvero come la trasformazione dello stato (identificato come) iniziale in quello finale. Per esempio, l'evento descritto come aprire una finestra può essere inteso come la trasformazione di uno stato iniziale, in cui la finestra è chiusa, in uno stato finale, in cui è aperta. Benché questa analisi della nozione di evento non esaurisca tutte le possibilità di eventi di tipo più complesso (per esempio, transizioni da uno stato a un processo o da un processo a un altro processo), essa è alla base della logica del mutamento di von Wright che costituisce, a sua volta, il presupposto formale della sua logicadellazione e della sua analisi della causalità (causa).
Una definizione, come si vede, che potremmo senza alcun indugio utilizzare per descrivere le nostre odierne «esperienze virtuali» dentro il flusso metatemporale del cyber-spazio. Esperienze in cui la «realtà» si dilata a tal punto da inghiottire simultaneamente il passato e il futuro. Il non più e il non ancora. La durata, in definitiva, schiodando il movimento dalla fissità inamovibile dello spazio geometrico (il prima e il dopo), restituisce alla realtà la «potenza» - la virtualità, diremmo noi oggi - creativa di diventare ciò che non è ancora. Se perfino il linguaggio della fisica - oltreché quello della storia - oggi parla di «eventi» e non più di «fatti», lo si deve forse anche all'opera di Bergson.
La «durata», scrive Bergson, è la «forma assunta dalla successione dei nostri stati di coscienza, quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione fra lo stato presente e quello anteriore»
Ciò comporta, tuttavia, una diversa concezione del tempo. Che non potrà essere quello esterno, istantaneo, omogeneo e quantificato dell'orologio, bensì quello interno, discontinuo, differente e qualitativo della «durata».
Giacché la divisibilità infinita dello spazio riduce il movimento a una condizione di immobilità.
Svincolando il movimento dallo spazio, innanzitutto. Per metterlo in rapporto invece con il tempo.
Ciò che Aristotele chiama «potenza», secondo Bergson, non può esaurirsi completamente nell'«atto». Se ciò accadesse, la realtà perderebbe quella intima pulsione che la sollecita incessantemente a divenire, a trasformarsi. Se la «potenza» aristotelica si risolvesse interamente nella realizzazione dell'«atto», la realtà sarebbe condannata a un eterno e gelido presente. Ci ritroveremmo pertanto a vivere in un mondo privo di movimento. In una realtà dove il povero Achille, conte abbiamo appreso dai manuali del liceo, non riuscirebbe mai a raggiungere la simpatica tartaruga, secondo l'ammonizione di Zenone.
demolire l'illusione metafisica che concepisce la realtà come un fatto in sé compiuto e stabile
O meglio - come si esprimeva Gilles Deleuze - nelle differenti ripetizioni (copie) di una originaria sostanza metafisica (modello) di cui si sono ormai perse le tracce.

Il modo estetico di giardare il mondo
Essere stranieri a se stessi

Arte deterritorializzante

Il ritornello è il contenuto della musica
Non l'origine che è ignota

La musica è gioia mai trahica, dà il gusto di morire con tragedia

non dipingere più le cose ma tra le cose
Breve azione scenica, di carattere leggero e vario, che serve a riempire gli intervalli fra un atto e l’altro o fra due quadri successivi di una rappresentazione (tragedia o commedia)

I politici potenti servono per dare speranza esistono perché  esiste la nostra infelicità se fossimo felici loro non esisterebbero

Siamo ceatori e creature

I sette specchi degli asseni

Voglio sapere dove siamo chi siamo dove stiamo andando

Metafora creazione
L'uomo crea l'uomo
Michelangelo

Mi sono portato io qui
Hanno scelto lei

La gravità è l'amore

Salto nel buio per la promessa negata

Non è possibe è necessario

Dopo l'orizzonte cé il mistero assoluto

Imprevisto primo mattone evolutivo
Buco nero risucchia tutto

la nostra è stata chiamata «epoca neobarocca», è appunto perché la realtà - come nell'età barocca - si è rarefatta nella sua transitoria e ineffabile rappresentazione.

La natura non è maligna
Cé solo quello che ci portiamo

Il perché
La cosa giusta per il motivo sbagliato

Tutto quello che seve accadere accadrá
Destino della terra
Non avevamo scelta
Loro

La terra non è nostra

Tecnologia imprevedibile no è affidabe

Ragazzino
Vexchio retrogrado e primitivisti

Eploratori pionieri non dei guardiani

Innocenza del divenire

La storia è fatta soltanto da coloro che si oppongono alla storia (non da quelli che vi inseriscono e nemmeno da quelli che la rimodellano)



l’idea di far emergere una lingua minore o straniera nella lingua maggiore, e lasciando inascoltato il suo appello in direzione di una filosofia che inventa e crea le sue parole e la sua musica. Sarebbe opportuno, allora, tentare finalmente di girare pagina e avviarsi con lui nella direzione che ci indica.

viatico
In queste ultime pagine, Deleuze ci invita a considerare semplicemente che cosa è “una vita”, una vita qualunque. Suggerisce di pensare alla vita dei neonati, tutta fatta di potenza e virtualità. Una vita contiene solo virtuali, il piano di immanenza dà agli eventi virtuali una piena realtà. Basta leggere Dickens, ci dice, se vogliamo entrare in questo mondo al cui lessico non siamo davvero abituati, ma nel sottofondo pare ancora di udire il motivo del settimino che si irradia come un ritornello nelle pagine della Recherche di Proust.
Un “articolo” che insieme indetermina la persona e determina la singolarità, l’ “ecceità” (meglio, l’ “hecceità”) dell’evento, fino al più piccolo?
“operare un taglio inedito delle cose”. Poi fare ciò, occorre produrre nuove parole, magari strane e magari dall’etimologia un po’ folle.
Il filosofo, aveva detto, è uno che “intaglia la propria freccia”
Ma la tortuosa abitudine di non dare alle cose il loro nome la indusse a fare dell'anteriore il posteriore, e a sostituire il partorito con l'espulso, e a cambiare flussi con ardori in modo che tutto fosse meno vergognoso, e perciò Ursula concluse ragionevolmente che i disturbi non erano uterini, ma intestinali, e le consigliò di prendere a digiuno una cartina di calomelano. Se non fosse stato per quella sofferenza che non avrebbe avuto nulla di pudibondo per chi non fosse stata ammalata anche di pudibondia, e se non fosse stato per la perdita delle lettere, a Fernanda non sarebbe importata la pioggia, perché in fin dei conti tutta la vita era stata per lei come se stesse piovendo.
la soggettivazione non passa più “per la vita aristocratica o per l’esistenza estetizzata dell’uomo libero [il greco, per esempio], ma per l’esistenza marginalizzata dell’ “escluso”.
ibridazione Deleuze postumano


potere e sapere, riterritorializzazione e deterritorializzazione

Il desiderio impersonale di Deleuze (“un Hans-divenire-cavallo”) VS desiderio-soggetto che Foucault scopre nel suo scavo storico e teorico.
alla follia del capitalismo e dei saperi che lo legittimano (come la psicoanalisi che taglia il desiderio e toglie la parola) oppone il proliferare rizomatico, la molteplicità dei mille piani, le linee di fuga che attraversano sempre i dispositivi stessi e li de-territorializzano.
Quali sono questi “regimi” di follia? Si potrebbe dire: quello paranoico in cui i segni sono presi in un rimando infinito e quello del delirio centrato attorno a un soggetto dispotico, o tutti e due assieme ma contrapposti a una sorta di “schizofrenia” che è, secondo Deleuze e Guattari, una forma di delirio costruttivo
la lingua è sempre come se fosse una lingua straniera

Non hanno segreto perché sono divenute lorostesse un segreto

Cercare in mezzo all immondizia problema purezza

Religiosità fede interstellar

Noi creatore creati creatività

legge newton lasciare gli altri per andare avanti
egoismo individuale interessi collettività
onde odissea 

Psicologia marketing fama e lavoro per passaparola , accondiscendenza, effetto placebo, catena di dipendenza

Le femministe auopoietiche

Per Deleuze e Guattari la macchina da guerra, composizione di uomini, armi e animali, è invenzione dei nomadi. Lo stato in quanto tale, non possiede fra le proprie funzioni la guerra, che deve sottrarre ai nomadi, catturando la loro macchina e trasformandola in qualcosa di diverso: l’esercito, la funzione militare. I grandi regni che sembrano emergere quasi dal nulla agli albori della storia, in Egitto, Mesopotamia, Creta o India, a un certo punto sono travolti da orde armate di carro da combattimento e arco composto che sembrano provenire dal nulla – hyksos, hurriti, cassiti, ittiti, ariani, micenei, sciti – rispetto alle quali si rivelano impotenti. Salvo poi imparare la lezione, assimilando le innovazioni dei nomadi per dotarsi di una potenziale militare che permetterà in molti casi agli stati di prendersi notevoli rivincite. Tuttavia, nel corso dei secoli, dalle steppe e dai deserti si assisterà a periodiche irruzioni oltre il limes degli stanziali di successive incarnazioni della macchina da guerra nomade: gli unni, gli arabi, i turchi, i manchù e soprattutto i mongoli, l’orda per eccellenza.

Segreto come secrezione

È l’ultimo che gli permetterà di ricominciare l’indomani
radicarsi alla propria solitudine
Le formiche tropicali della specie Camponotus leonardi, abitatrici delle volte delle foreste, sono note perché quando vengono infettate dal fungo parassita Ophiocordyceps unilateralis, il loro comportamento cambia in modo drastico.

Ora una ricerca condotta da un gruppo internazionale di biologi ha chiarito alcuni meccanismi dell'azione del fungo, che è illustrata in un articolo sulla rivista BMC Ecology.

Una volta che le spore hanno infettato la formica, il fungo cresce fino a invadere il corpo della formica determinando un'atrofia dei muscoli che sono soggetti anche a contrazioni spastiche legate alla crescita del parassita nel cervello. Per questo, mentre le formiche normali ben difficilmente abbandonano le colonne ben ordinate in cui si spostano, le formiche zombi camminano in modo casuale e diventano incapaci di tornare al formicaio. Colpite da convulsioni via via più intense, finiscono poi per cadere dal baldacchino delle piante fino al sottobosco che si estende fino a 25 centimetri da terra, dove l'ambiente più fresco e umido fornisce le condizioni ideali per il proliferare del fungo.

Verso il mezzogiorno solare, quando la temperatura aumenta, il fungo - che si diffonde sempre più nella testa - sincronizza il comportamento delle formiche portandole a mordere ripetutamente le foglie su cui si trovano, fino a serrare le mandibole con una forza tale da farle rimanere attaccate a una foglia anche da morte. Pochi giorni dopo il fungo genera il corpo fruttifero a partire dalla testa della formica, che rilascia spore destinate a infettare altre formiche.

"Il fungo attacca le formiche su due fronti. In primo luogo, utilizzando la formica come fonte di cibo semovente, e in secondo luogo, danneggiandone muscoli e sistema nervoso centrale, causandone la morte e un morso che impedisce la caduta a terra e le tiene attaccate a quel sottobosco fresco umido che offre l'ambiente ideale per la crescita e la riproduzione del fungo stesso. Questo comportamento delle formiche infettate rappresenta in un certo modo un'estensione del fenotipo del fungo, ossia un comportamento del fungo mediato dal corpo della formica", spiega David Hughes, della Penn State University, che ha diretto lo studio. (gg)
Le formiche diedero non poco filo da torcere a Charles Darwin. La selezione naturale presuppone la riproduzione, unico mezzo con cui, in natura, i caratteri dei più adatti possono essere trasmessi alla progenie. Il fatto è che le formiche operaie non si riproducono. Le uniche formiche fertili infatti sono le regine e i maschi. Come hanno potuto evolversi quindi queste formiche sterili? Come può aver agito su di loro la selezione? Semplice: agendo a priori, sui genitori. In pratica, la regina che genera operaie sterili migliori sarà favorita perché meglio nutrita, servita e accudita. In questo modo la natura ha selezionato le regine che avevano operaie più adatte e ha permesso l'evoluzione di questi insetti.

Cade così, per quanto ci riguarda, il pregiudizio secondo cui la mancata riproduzione di un individuo dimostra il suo essere inadatto. La natura ragiona sulla specie, sulla collettività e non sull'individuo. Un individuo (o anche la quasi totalità degli individui, come tra formiche) può essere sterile o non riprodursi per altri motivi se questo comporta un maggior vantaggio per la comunità nel suo complesso.
Qualunque sia, dunque, il grado del percorso storico per ciascun popolo (in base al progresso politico – economico), per tutti la storia è comunque un processo di ricostruzione continua, a causa della tendenza naturale dell’uomo a riavvicinarsi all'origine. La storia universale è il cammino unidirezionale e tendente al progresso che tocca tutti i popoli, le storie particolari sono la vicenda secolare di ciascun popolo che ammette reversibilità in base ai meccanismi di decadenza, restaurazione, rinnovamento. È a questo livello che si attua il relativismo culturale. La "fine della storia" è possibile solo nel grado temporale di essa, mentre in quello geografico tale esito potrà sempre essere contestato dal riemergere delle storie particolari.
L'insieme dei tratti comportamentali e delle norme morali e sociali di un popolo, o la sua "cultura", dipendono dall'ambiente in cui vive. Secondo le concezioni proprie del relativismo culturale, nessuno dei diversi modi di vivere e di pensare propri dei diversi habitat umani è superiore ad un altro e non esiste una "cultura umana", ma diverse culture proprie dei diversi ambienti. Ciascuna di queste culture rappresenta inoltre un diverso punto di osservazione sul presente, che può essere considerato momento di passaggio o momento di consolidamento, ed è portatrice di diversi valori e ideali di felicità personale o sociale. Questa concezione rende dunque possibile che l'ideale di progresso scientifico condiviso e diffuso dalla società occidentale non sia accettato da altre culture, che pongano in primo piano valori diversi.
L'insieme dei tratti comportamentali e delle norme morali e sociali di un popolo, o la sua "cultura", dipendono dall'ambiente in cui vive.
Per Fukuyama la natura umana non si distingue su un piano fisico e un piano psichico: in opposizione alla concezione freudiana le manifestazioni dell'animo sarebbero anch'esse di natura biologica e non psicologica e come tutte le manifestazioni fisiologiche potrebbero dunque essere controllate dalla scienza.

O con una loro logica che vola come una piuma

Chiusi non si tesiste a sentirlo a parlare
Toglie il terreno sotto i piedi
La logica
Viene chiuso fa paura

Perdio, l’impudenza di presentarsi qua, a me, ora – col suo ganzo accanto… – E avevano l’aria di prestarsi per compassione, per non fare infuriare un poverino già fuori del mondo, fuori del tempo, fuori della vita! – Eh, altrimenti quello là, ma figuratevi se l’avrebbe subìta una simile sopraffazione! – Loro sì, tutti i giorni, ogni momento, pretendono che gli altri siano come li vogliono loro; ma non è mica una sopraffazione, questa! – Che! Che! – È il loro modo di pensare, il loro modo di vedere, di sentire: ciascuno ha il suo! Avete anche voi il vostro, eh? Certo! Ma che può essere il vostro? Quello della mandra! Misero, labile, incerto… E quelli ne approfittano, vi fanno subire e accettare il loro, per modo che voi sentiate e vediate come loro! O almeno, si illudono! Perché poi, che riescono a imporre? Parole! parole che ciascuno intende e ripete a suo modo. Eh, ma si formano pure così le così dette opinioni correnti! E guai a chi un bel gior no si trovi bollato da una di queste parole che tutti ripetono! Per esempio: «pazzo!» – Per esempio, che so? – «imbecille!» – Ma dite un po’, si può star quieti a pensare che c’è uno che si affanna a persuadere agli altri che voi siete come vi vede lui, a fissarvi nella stima degli altri secondo il giudizio che ha fatto di voi? – «Pazzo» «pazzo»! – Non dico ora che lo faccio per ischerzo! Prima, prima che battessi la testa cadendo da cavallo…

Al di là degli schemi ciclici o parabolici delle individuali forme di stato (la concezione aristotelica per cui ogni forma di governo può avere un inizio felice e una degenerazione rovinosa), che appartengono alla storia particolare di ciascun popolo, secondo la concezione di storia unidirezionale di Fukuyama esiste dunque ad un livello più alto, trasversale a tutti i popoli, un senso unico della storia, rivolto verso la costruzione di uno stato di cose non più ulteriormente modificabile, un traguardo di perfezione per tutti gli uomini, a cui si accede dopo un percorso di crescita storica che, da paese a paese, può avere durate diverse.
Le concezioni cicliche della storia fanno seguire al progresso un processo di degenerazione che cancella ogni consapevolezza dei risultati precedenti: per Fukuyama se questo oblio non è completo ogni ciclo successivo si troverebbe comunque a costruire, per quanto in misura ridotta, sulla base delle esperienze precedenti. Anche nelle ripetizioni (per esempio l'affinità della contrapposizione tra Atene e Sparta nella storia greca e di quella tra Stati Uniti ed Unione Sovieticanella Guerra Fredda) esiste memoria e movimento e la ricorrenza di certi modelli storici antichi, mai esattamente identici, rimane compatibile con una storia direzionale.
Nel dispiegarsi del processo storico si possono verificare delle ricadute: la somiglianza di scenari ed eventi appartenenti ad epoche diverse lo proverebbe. Tuttavia questa somiglianza risiede per Fukuyama non nel corso degli eventi, ma nella stessa memoria storica dell'uomo, che gli consente di accostare eventi tra loro lontani nel tempo: proprio questa capacità di individuare riscontri attraverso le varie epoche rende la storia una lezione per l’umanità, nel modo in cui l’avevano già definita gli antichi.
per Fukuyama dobbiamo di conseguenza ammettere che la storia è un corso intelligente.
conformare i sistemi politici ai principi della democrazia liberale


il progresso non è altro che la forza che garantisce la condizione di costante superamento tra passato e presente.




La visione del tempo storico di Tucidide non era dunque più "lineare", come invece quella di Erodoto (descrivo nel presente i fatti del passato perché sono ignaro di quale destino avrà la memoria dell’uomo nel futuro), bensì "triangolare", dove il presente è la base che sottende tanto il passato quanto il futuro. Questa concezione si differenzia da quella di impostazione ellenistica, in cui la storia è concepita come compiuta nel passato e lo scrivente e il suo tempo tendono a chiamarsi fuori dal percorso storico.
Grazie alla memoria, che è parte integrante della ragione,
La prima concezione universale della storia si ebbe invece con il Cristianesimo: dal concetto di uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio, deriva la concezione di un destino comune a tutti, valido per tutti i popoli del mondo e di una storia con un inizio, la creazione, e una fine, la salvazione finale (in sant'Agostino). Con ilRinascimento e le rivoluzioni scientifiche del XVII– XVIII secolo, congiuntamente con l’affermarsi del concetto di homo artifex fortunae suae (uomo artefice della propria fortuna), la riflessione globale sulla storia si sposta da fattori predeterminanti in essa (come l’intervento divino) al fattore umano, o, più precisamente, al fattore della ragione umana.
una pretesa di rintracciare nella successione degli eventi una loro profonda finalità: cicli e discontinuità degli eventi vengono compresi in questa concezione complessiva della storia nel suo insieme


Secondo Kojève, la sfilata delle truppe di Napoleone I sotto le finestre di Hegel alla fine della battaglia di Iena ha costituito la fine della storia: questo singolo avvenimento costituisce infatti una duplice conclusione.

Da un lato conduce al trionfo di un nuovo ordine militare e giuridico dell'Europa: l'avanzata della "Grande Armata" si traduce in un'estensione della codificazione del diritto, consistente nella sua razionalizzazione. Dall'altro lato l'episodio permette a Hegel di comprendere che la storia permette la realizzazione della ragione filosofica: diritto e filosofia si realizzano dunque pienamente nel 1806 e, secondo Kojève, gli avvenimenti successivi a tale data non costituiscono altro che l'estensione della fine della storia al resto del mondo fuori dell'Europa e persino le due guerre mondiali partecipano a questa progressiva diffusione della ragione.
Tucidide secondo il quale il futuro non è che una proiezione del presente sui fondamenti del passato
La solitudine e la disperazione ci faranno fare delle cose folli»
egoismo e codardia, è molto umano [da qui, “Man” in quanto “Uomo”]

pace mondiale

Religiosità fede interstellar
buco nero forza gravitò aggirare forza lavoro lancio orbita sgancio zavorra volo velocità

governo globale


riconoscimento identitario tribale, moda ingegneria sociale es:barba vittoria sul marxismo


contadini e scenziati


insegnanti statali e ingegneri


il bello il brutto


esaltazione tecnologica


tassazione stato e servizi


darwinismo sociale


postumanesimo

destinati abbandonare mondo ovvero colonizzazione universo

agricoltori-primitivisti , scienziati-vita

quantificazione

innoquità ai

portatile popolare immedesimazione

sincerità 90 - 100


legge newton lasciare gli altri per andare avanti


egoismo individuale interessi collettività

riproduzione postumanesimo viaggi spaziali


la salvezza attraverso l'umanità

onde odissea

nasa usa portatili

“Un tempo alzavamo lo sguardo al cielo chiedendoci quale fosse il nostro posto nella galassia, ora lo abbassiamo preoccupati e intrappolati nel fango e nella polvere.”

“- Brand: Siamo arrivati fin qui, più lontano di chiunque nella storia.
- Cooper: Non è abbastanza lontano!”

“La legge di Murphy dice che tutto quello che deve accadere, accadrà. E a noi non sembrava assolutamente una cosa brutta.”

“- Brand: Forse tu dovrai scegliere se rivedere i tuoi figli... o salvare il futuro dell'umanità.
- Cooper: Troveremo una soluzione... l'abbiamo sempre fatto!”

“Dobbiamo affrontare la realtà: non c’è niente nel nostro sistema solare che possa aiutarci.”
La salvezza per il genere umano è nello spazio
viaggio verso l’ignoto



il mondo si ridusse alla superficie della sua pelle e il suo intimo fu esente da ogni amarezza
PURIFICARE I RICORDI E RICOSTRUIRE L'UNIVERSO SOTTO UNA LUCE NUOVA
per la comprensione senza limite della solitudine
sentirsi ripetuti, limpidi e poi corrotti
accettazione destino

L'originalità è un illusione quando diventa fenomeno di massa,  deriva modaiola,

aristocratico disprezzo per il mainstream


La pigrizia che chiede il soggetto innamorato non è soltanto «non far nulla», è soprattutto non decidere.

In un Frammento, intitolato «Che fare?», ho detto che il soggetto amoroso, in certi momenti, cerca di mettersi insieme, in quella perpetua tensione che per lui rappresenta la passione, «un angolino di pigrizia».

Infatti il soggetto amoroso che mi sforzavo di descrivere si pone a ogni momento dei problemi di comportamento: devo telefonare? Devo andare all’appuntamento? Non devo andarci?

Avevo ricordato che il «che fare?», cioè il tessuto delle risoluzioni e delle decisioni di cui è forse fatta la nostra vita, è simile al karma buddista, vale a dire alla concatenazione delle cause che ci obbliga continuamente ad agire, a rispondere. Il contrario del karma è il nirvana. Si può quindi, quando si soffre molto di karma, postulare, fantasmare una sorta di nirvana. La pigrizia allora assume una dimensione di annullamento.
al di là del bene e del male, poiché solo il soggetto che la incarnava in mezzo alle cose la rendeva buona o cattiva.
Ora, qual è il problema della musica, qual è il suo contenuto indissociabile dall’espressione sonora? È difficile dirlo, ma è qualcosa come: un bambino muore, un bambino gioca, una donna nasce, una donna muore, arriva un uccello, un uccello se ne va. Vogliamo dire che temi come questi non sono accidentali nella musica […], e ancora meno sono esercizi imitativi, ma qualcosa d’essenziale. Perché un bambino, una donna, un uccello? Perché l’espressione musicale è inseparabile da un divenire-donna, da un divenire-bambino, da un divenir-animale che costituiscono il suo contenuto.
Da un lato i punti, come il giglio o l’uccello, dall’altro questi punti si concatenano a formare una linea di divenire, in cui svaniscono come punti isolati, senza i quali tuttavia quella stessa linea non potrebbe essere. In questo senso la linea di divenire è tutta e solo “tra” i punti, è l’ondulazione che li attraversa: “Una linea di divenire ha solamente un mezzo”.[66] Il piano di consistenza è allora il divenire musica delle diverse “ecceità” che concatena:
“Una linea di divenire” – una linea musicale, appunto – “non è definita dai punti che essa collega né da quelli che la compongono: al contrario passa tra i punti, cresce solo nel mezzo” (melodia) “e fila in una direzione perpendicolare ai punti che si sono prima distinti, trasversale al rapporto localizzabile tra punti contigui o distanti”[65] (armonia).
il pensiero di Deleuze sia segnato da una radicale diffidenza verso il linguaggio, a cui sempre preferisce la musica
l’immanenza finalmente annulla ogni dualismo (e perciò quella di immanenza è una nozione senza contrario), e c’è solo “una vita, e nient’altro. [...] Una vita è l’immanenza dell’immanenza, l’immanenza assoluta: è completa potenza, è completa beatitudine”.[64]
Seguendo n dimensioni, la si chiama Ipersfera, Meccanosfera. È la figura astratta o, piuttosto, dal momento che non ha forma, la Macchina astratta, di cui ogni concatenamento concreto è una molteplicità, un divenire, un segmento, una vibrazione. Ed essa, la sezione di tutti.[63]
Quanto più è vero che sei oggi, quanto più sei completamente presente a te stesso nell’essere oggi, tanto più il giorno dell’infelicità, il domani, non esiste per te.
abbiamo fatto della gente, di tutta la gente un divenire, poiché abbiamo costruito un mondo di comunicazione inevitabile, poiché abbiamo soppresso in noi tutto quel che ci impediva di scivolare tra le cose, di crescere nel mezzo delle cose. Abbiamo combinato il “tutto”, l’articolo indefinito, l’infinito-divenire, e il nome proprio al quale ci si riduce. Saturare, eliminare, mettere tutto.
ingegneria sociale
zen samurai obbedienza deleuze radicale aderenza alla vita


Non posso far altro, non so fare che così

sancho
obbedienza senza volontà, senza sforzo, senza fatica
con tutta la forza e la potenza che gli è possibile, e vive la vita che vive, non un’altra che avrebbe potuto vivere, vive proprio la vita che non ha scelto, perché comunque non avrebbe scelto una vita diversa
si lega “a lui incondizionatamente e in ogni cosa”
Il divenir-animale è solo un caso tra altri. Ci troviamo presi in segmenti di divenire [...]: divenire-donna, divenire-bambino; divenir-animale, vegetale o minerale; divenire-molecolari di ogni specie, divenire-particelle
design , capitalismo, massimo rendimento minor costo, efficienza, serialità, trascendenza del marchio, razionalismo
l’immanenza si deve passare per il linguaggio, e quindi occorre “trasformare le composizioni d’ordine in componenti di passaggio”.[47]Trasformare il linguaggio in un “passaggio”, perché “la vita” – come il giglio nel campo e l’uccello nel cielo – “non parla, ascolta e attende”; ecco il perché del silenzio.


“L’unità elementare del linguaggio”, scrivono Deleuze e Guattari, è infatti “la parola d’ordine”

Il linguaggio non comunica, come la danza profumata delle api, ordina, comanda, istruisce: “Lo si può vedere nei comunicati della polizia o del governo, che si curano ben poco di verosimiglianza o di veridicità, ma dicono a chiare lettere quel che dev’essere rispettato e tenuto a mente”.[40] Il linguaggio sembra avere un unico scopo, controllare e regolarizzare il flusso dell’immanenza: “Le parole d’ordine segnano arresti, composizioni stratificate, organizzate”.[41] Per questa ragione per ritrovare il movimento dell’immanenza occorre rinunciare al linguaggio, almeno a quello che è un “contrassegno di potere”;[42] ogni parola, ogni enunciato, è una “parola d’ordine”, cioè un contenitore che chiude e isola una porzione di movimento, la tira fuori dalle rete di connessioni in cui vive, la trasforma in una sostanza, in una cosa. Il linguaggio in quanto “parola d’ordine” si frappone alla vita, e rappresenta il suo contrario, una istanza di morte:[43] “Il linguaggio non è la vita, dà ordini alla vita; la vita non parla, ascolta e attende. In ogni parola d’ordine, pure in quella di un padre a suo figlio, c’è una piccola sentenza di morte – un Verdetto, diceva Kafka”.[44] Ecco allora perché il primo e fondamentale momento del percorso di Kierkegaard verso l’immanenza sia il silenzio, che è ancora nell’orbita del linguaggio, e tuttavia non è più una “sentenza di morte”,[45] bensì una specie di parola “lasciapassare”;[46] perché per l’immanenza si deve passare per il linguaggio, e quindi occorre “trasformare le composizioni d’ordine in componenti di passaggio”.[47]Trasformare il linguaggio in un “passaggio”, perché “la vita” – come il giglio nel campo e l’uccello nel cielo – “non parla, ascolta e attende”; ecco il perché del silenzio.
Saturare ogni atomo. Non è mai stato deluso perché nulla si aspettava, l’uccello. Quello che gli succede riempie tutta la sua esistenza, senza residui. Questa è la pienezza dell’istante. Quello di “istante” è un altro modo di definire il piano di immanenza, un momento non cronologico in cui tutto è contemporaneo, senza passato né futuro (e per questa ragione “l’istante è solo nel silenzio”,[37] perché al contrario il linguaggio è trascendenza, è orologio); in questo senso l’istante è senza tempo, ed è molto vicino a quello che Deleuze e Guattari chiamano “ecceità”, cioè delle “individuazioni senza soggetto”,[38] come appunto sono il giglio nel campo e l’uccello nel cielo.
L’uccello tace e attende: sa, o meglio, crede fermamente che tutto avverrà a suo tempo, perciò l’uccello attende. Ma sa pure che non gli spetta sapere il giorno e l’ora, perciò tace. Avverrà a tempo opportuno, dice l’uccello, anzi no, non dice così l’uccello, tace. Ma il suo silenzio parla, e dice che lui ci crede e, dal momento che ci crede, tace e attende. Quando poi l’istante arriva, il silenzioso uccello comprende che quello è l’istante; e lo mette a frutto e mai è stato deluso.[36]
Il divenir-animale dell’uomo è reale, benché non sia reale l’animale che egli diviene
mettere in movimento la potenza del corpo di essere quel
Il punto non è vivere come un giglio, o come un uccello, è mettere in movimento la potenza del corpo di essere quel giglio, quell’uccello
“il divenire non produce nient’altro che se stesso”
C’è dunque unità di un piano di natura, che vale ugualmente per gli esseri inanimati e per quelli animati, per gli artificiali e i naturali. [...] Non parliamo qui dell’unità della sostanza, ma dell’infinità delle modificazioni, che sono le une parti delle altre su questo unico e medesimo piano di vita.


Ascoltare qui significa partecipare senza domande (senza desideri né rimproveri) al movimento intrinseco della vita. Ascoltare la vita che si vive, e partecipare senza chiedersi perché a questo stesso movimento. Coincidere con le articolazioni immanenti della vita [strutturalismo], essere quella vita. Ascoltare significa allora partecipare alla “Natura”:

Il piano di consistenza della Natura è come un’immensa Macchina astratta, tuttavia reale e individuale, i cui pezzi sono i concatenamenti o gli individui diversi ciascuno dei quali raggruppa un’infinità di particelle sotto un’infinità di rapporti più o meno composti. C’è dunque unità di un piano di natura, che vale ugualmente per gli esseri inanimati e per quelli animati, per gli artificiali e i naturali. [...] Non parliamo qui dell’unità della sostanza, ma dell’infinità delle modificazioni, che sono le une parti delle altre su questo unico e medesimo piano di vita.[32]


Chi imparò dal giglio nel campo e dagli uccelli nel cielo, allora,

…divenne silenzioso, anzi, cosa che se possibile si oppone al parlare ancora più del silenzio, divenne uno che ascolta. Credeva che pregare fosse parlare; imparò che pregare è non solo tacere, ma ascoltare. Ed è così. Pregare non è ascoltare se stessi parlare, ma giungere a tacere e restare in silenzio, nell’attesa, fino a che chi prega non arrivi ad ascoltare Dio.[31]
Al contrario “io” è tutta una fatica di scelte e desideri, di rimorsi e rancori, di speranze e delusioni. La posta in gioco del silenzio, allora, è il linguaggio, e attraverso di esso la più fantastica di tutte le creature linguistiche, “io”


Sceglie chi desidera qualcosa, ma desidera solo chi è separato da se stesso, e vive la propria condizione come mancante di qualcos’altro; solo l’animale che vive nella trascendenza desidera scegliere.

Il giglio non sceglie perché non è insoddisfatto della sua vita; è la vita che è, questa è l’immanenza.
solo “io” cioè è in grado di fermare il flusso della vita, e tirarsene fuori, e collocare se stesso da un’altra parte.
è l’unico e ultimo compito che abbia “io”
il “regno di Dio” non è un passato originario da ripristinare, al contrario, è un compito, è l’unico e ultimo compito che abbia “io” (ultimo perché dopo non ci sarà più alcun “io”): “L’inizio non è ciò con cui si inizia, ma ciò a cui si giunge; e vi si giunge a ritroso. L’inizio è questa arte di diventare silenziosi, perché non è arte essere silenziosi come lo è la natura”.[29] Diventare silenziosi, ossia rinunciare a ciò che rende speciale il corpo dell’animale che parla, l’unico corpo che presuntuosamente può dire di sé “io”. O “io” (e quindi linguaggio) o immanenza.
prendere posizione rispetto a se stesso
Finché c’è “io” non ci può essere corpo, e finché non c’è semplicemente corpo non può esserci nemmeno mondo, pienezza della vita, immanenza. Perché “io” è sempre preso dall’impegno (dal dovere) di fare, di cambiare le cose, di prendere posizione rispetto a se stesso.
mettere fra parentesi il linguaggio, ed ecco allora il silenzio. Non il silenzio linguisticizzato di chi tace per alludere a una parola non detta ma implicita, e nemmeno il silenzio di chi resta senza parole. Questi silenzi sono ancora del tutto dentro l’ambito del linguaggio, si tratta di un silenzio eloquente, o di una parola silenziosa.
Sanguineti mettere fra parentesi il linguaggio, ed ecco allora il silenzio.
“io” è lì che vuole vivere, e a farne le spese è il “suo” corpo. “L’illusione della trascendenza”[24] entra così nella vita dell’animale che parla. È per questo legame costitutivo fra linguaggio e trascendenza che il movimento verso l’immanenza non può che cominciare facendo i conti con il linguaggio, solo così, infatti, sarà possibile liberarsi del “soggetto” – il principale ostacolo sulla strada dell’immanenza – cioè dell’“abitudine di dire Io”.
spezza anche la durata, perché se c’è un ora ci sarà anche un prima e un dopo (non c’è orologio senza linguaggio, e viceversa)
La parola “io” decentra il corpo da se stesso, lo tira via da sé, e lo getta lontano, in un altro tempo e in un altro spazio.
una, in particolare, che introduce una scissione radicale nel corpo umano, la parola “io”.[20] Il corpo che dice “io” sta letteralmente dividendosi in due parti: una che agisce e vive la vita di ogni corpo vivente, e un’altra che dall’esterno lo osserva e lo giudica.[21]


È l’equivoco, al contrario, il carattere principale del linguaggio (umano)

In questo senso non si pone il problema della verità o della falsità per questi segnali: dal momento che non possono comparire senza la contemporanea presenza dell’oggetto a cui si riferiscono, questi segnali non sono veri, perché non potrebbero nemmeno essere falsi. Le api non sono sincere, perché non potrebbero nemmeno essere insincere.


Una lingua non è un mezzo di comunicazione.



Un segnale della danza delle api può essere considerato come un prolungamento del fiore nel cervello di un’ape, e viceversa, il fiore è l’estrema propaggine del suo corpo. Il corpo di un’ape arriva fin dove ci sono i fiori da cui è attratta, così come il campo vitale dei fiori si estende fin dentro l’alveare.[16] Un segnale di un codice comunicativo animale non può esistere senza l’oggetto a cui è attaccato (in fondo si potrebbe anche considerare la danza comunicativa delle api come un mezzo segnico che usa un fiore per comunicare con un altro fiore, e così arrivare a impollinarlo).
corpo in grado di “fare rizoma” con il resto della natura, “cosicché ogni individuo è una molteplicità infinita, e tutta la Natura è una molteplicità di molteplicità”
alcuni curiosi affacciati sul precipizio dell'incertezza
Se il divenir-animale assume la forma della tentazione [...], dipende dal fatto che si associa nelle sue origini così come nella sua impresa a una rottura con le istituzioni centrali, costituite o che cercano di costituirsi”.[13] Far collassare il soggetto, per costruire un corpo in grado di “fare rizoma” con il resto della natura, “cosicché ogni individuo è una molteplicità infinita, e tutta la Natura è una molteplicità di molteplicità”.[14]
autocatalitico

La condizione perché questo movimento possa effettuarsi è che il flusso del divenire non sia ostacolato, che non ci siano sostanze che si proclamino autonome e autosufficienti. Questa sostanza è il Soggetto. Il “divenir-animale” è il movimento che oltrepassa il soggetto, e lo apre alla relazione, alla contaminazione, alla “molteplicità”:

Il divenire e la molteplicità sono un’unica, una stessa cosa. Una molteplicità non si definisce per i suoi elementi, né per un centro di unificazione o di comprensione. Si definisce per il numero delle sue dimensioni, non si divide, non perde o non acquista alcuna dimensione senza cambiare natura. E, poiché le variazioni delle sue dimensioni le sono immanenti, è lo stesso dire che ogni molteplicità è già composta da termini eterogenei in simbiosi o che non cessa di trasformarsi in altre molteplicità in successione, secondo le sue soglie e le sue porte.[11]
Il divenir-animale è una “involuzione”, cioè “una forma di evoluzione che avviene tra elementi eterogenei, a condizione, soprattutto, che non si confonda l’involuzione con una regressione. Il divenire è involutivo, l’involuzione è creatrice. Regredire è andare verso il meno differenziato. Ma involvere è formare un blocco che fila secondo la propria linea, ‘tra’ i termini messi in gioco”.[10] È una direzione di movimento, un orizzonte, un modo per avvicinarsi all’immanenza.
Sul nuovo piano, il problema potrebbe riguardare l’esistenza di colui che crede al mondo, non come esistente, ma come possibilità di movimenti e di intensità, atti a generare ulteriori e nuovi modi di esistenza, più vicini agli animali e alle rocce. Può darsi che credere in questo mondo, in questa vita, sia diventato la nostra impresa più difficile o l’impresa di un modo di esistenza da scoprire oggi sul nostro piano di immanenza.[4]
Quanto grande dev’essere la violenza da fare al pensiero per diventare capaci di pensare, la violenza di un movimento infinito che ci priva al tempo stesso del potere di dire Io?
il linguaggio incarna l’essenza stessa di ogni dualismo

Sebbene Deleuze avesse dichiarato di non essersi mai interessato al problema dell’oltrepassamento della metafisica83 (come invece ha fatto Derrida) bisogna ripensare lo statuto del frammezzo che muove il piano d’immanenza come il tra trascendenza ed immanenza; bisogna ripensare l’impaccio della chora. 

È ciò che si chiama evento, ovvero la parte che in tutto ciò che avviene sfugge alla sua propria attualizzazione. L’evento non coincide assolutamente con lo stato di cose, [...] mantiene un versante oscuro e segreto che non cessa di sottrarsi o di aggiungersi alla sua attualizzazione [...] Si potrebbe dire che è trascendente perché sorvola lo stato di cose, ma è l’immanenza pura che gli da la capacità di sorvolare se stesso in se stesso sul piano. Trascendente, transdiscendente, è piuttosto lo stato di cose nel quale esso si attualizza; ma persino nello stato di cose esso rimane pura immanenza di ciò che non si attualizza o di ciò che resta indifferente all’attualizzazione, poiché la sua realtà non ne dipende. L’evento è immateriale, incorporeo, invivibile: la pura riserva.29

Nel mondo di Alice di Pier Aldo Rovatti (da "aut aut" 276, novembre-dicembre 1996) E' il 'mondo' nel quale Gilles Deleuze contro-effettua la sua idea di senso (cfr. Logica del senso, 1969). Alice è il notissimo personaggio di Lewis Carroll, e per spiazzare ancora di più il lettore Deleuze presenta il mondo di Alice come il doppio dell'antica filosofia stoica. Sembra solo una questione di superfici, ma questa poi si rivela la questione più ardua. Se Nietzsche l'aveva compreso, e aveva capito che proprio a ciò miravano i Greci, si tratta però di andare al di là di Nietzsche stesso... Fermiamoci un momento. Ce ne è già abbastanza per molte domande: vediamole, cercando un filo. La domanda sul senso, innanzi tutto: senso, per Deleuze, non corrisponde a nessuna delle ovvietà che accompagnano questa parola nel linguaggio ordinario, che anzi lo tradiscono rendendolo buono o comune. Di solito il senso viene pensato e adoperato servendosi di una filosofia implicita che ricava la propria verità dalla coppia profondità/altezza. In Logica del senso Deleuze vuole detronizzare queste due immagini accoppiate di filosofia e cerca di inventare un'immagine terza in cui il senso diventi il pensiero della superficie: non ci dovrebbe più essere fondo, né fondo senza fondo, ma non ci dovrebbe essere neanche più altezza, un 'oggetto' del sopra o un super-oggetto che dia al senso la buona direzione. Ma se si annullano, con un medesimo gesto, la follia delle profondità e l'apparente salute mentale delle altezze, le quali bloccano il senso in una ordinata catena di significati e insomma ci impediscono di capire cosa ci sta accadendo, che resta? Alla superficie, una volta che vi risalissimo, tutto potrebbe apparirci appiattito o senza spessore, appunto come il mondo di carte da gioco che Alice incontra nelle sue avventure. Ma qui, in questo 'mondo' all'apparenza piatto, Deleuze, dopo Nietzsche, gioca tutta la sua partita, inscena il proprio colpo di teatro filosofico. Solo nelle condizioni della superficie riguadagnata possono infatti prender vita i suoi personaggi concettuali: l'evento, la singolarità, il fantasma, il tempo senza presente, il concatenamento. Personaggi che ci hanno affascinato e ancora ci prendono, quando leggiamo le pagine di Deleuze, ma che - dobbiamo pure confessarlo - restano per noi esotici, come certe parole che usa Carroll, o almeno poco maneggevoli. Che cosa è dunque questo mondo delle superfici, e a che ci può servire Alice? Il meno che si possa dire è che il mondo superficiale lungo il quale corre il senso non è appiattibile su un'idea semplice di superficie: è, viceversa, il mondo del non-senso, del paradosso, in cui la duplicità precede il senso (inteso come direzione), in cui non ci sono cause, in cui non c'è mai il nunc stans di un presente. Potremmo dire: è un mondo topologicamente complesso in cui nessun elemento va da solo, ma c'è sempre una doppia serie, e le serie non sono convergenti, o almeno, se convergono, lo fanno nell'ambito di una 'logica' della divergenza. Ma ancora: che significa questo? Di che 'serie' si tratta e perché chiamarle in causa? Deleuze è martellante su questo punto: in Alice sono le due serie del mangiare e del parlare, per noi potrebbe essere, più semplicemente (!), la serie delle cose e degli stati di cose e la serie di quelle che di solito chiamiamo idee; di là i corpi e le loro mescolanze (come suggerivano gli stoici), di qua l'incorporeità delle parole e delle immagini. Attenzione, perché è proprio qui che Deleuze lancia la sua sfida filosofica. Possiamo accettarla oppure rifiutarla, ma questa sfida consiste nel farci riflettere al fatto che normalmente noi tendiamo a far convergere le due serie in modo che si avvicinino il più possibile, e che magari si sovrappongano: i corpi potrebbero mangiarsi le parole, le parole sciogliere i corpi, e questo è successo tante volte nella storia del pensiero, ma poi noi vorremmo una sintesi a metà, una mediazione, una buona commistione di corpi e parole. C'è però un'altra strada, quella che lascia sussistere le serie nella loro differenza, sempre almeno due e divergenti. Per batterla bisognerebbe convincersi che il non-senso e il paradosso non sono ostacoli sul cammino ma, tutto al contrario, ciò che segna il cammino e permette di muoversi. Una volta che siamo riusciti a risalire alla superficie, abbandonando le profondità dei corpi (una sola serie: mangiare), e abbiamo vinto l'illusione delle altezze (voci che ancora non si articolano in un linguaggio: la chiamata della coscienza con la sua corona di idealità, ancora un'unica serie), non approdiamo alla quiete di una terza dimensione, alla sintesi di un soggetto ritrovato, qui e ora. Questo ritorno fenomenologico non può ripetere il rapporto di opposizione-esclusione tra profondità e altezza. E' proprio la natura del rapporto che secondo Deleuze deve cambiare radicalmente: per superare la logica binaria (cui si sottomettono i nostri normali regimi di verità) il rapporto dovrà essere inclusivo, tenere insieme le serie divergenti senza che l'una si identifichi con l'altra. Perciò la superficie non si contrappone alla profondità né all'altezza, perciò non può essere uno spazio qualunque. Con il termine 'topologico' Deleuze intende indicarci, sfruttando ancora il senso comune di un sapere scientifico, questa diversità: non solo spazio ormai mancante di un centro soggettivo, di un orientamento a partire da un io, ma anche (e perciò) luogo della duplicità, dove la direzione è sempre almeno doppia e dove non è più possibile segnare il confine tra dentro e fuori sul modello dell'opposizione tra sopra e sotto. L'interno e l'esterno, rapporto che modifica in modo decisivo quello normale tra sopra e sotto (superficie e fondo), si coappartengono senza escludersi e senza identificarsi, ed è proprio il loro modo di stare assieme (sintesi disgiuntiva, per dirla con Deleuze, o, più tardi, agencement, concatenamento) che garantisce la distinzione. Sembra allora che siamo entrati nella terra di ciò che non ha senso, appunto il mondo nonsense di Carroll, in cui Alice si avventura attraversando lo specchio, il mondo incorporeo e atemporale degli eventi, dice Deleuze, ma si badi che qui è ancora e proprio questione di corpi e di tempi, corpi che ingrandiscono e rimpiccioliscono, che diventano attivi e passivi, tempi che aggirano ogni volta il presente, la prima persona o la seconda o la terza del presente indicativo, sostituendole con la follia di una quarta persona singolare ('piove', 'verdeggia', 'accade') o di un infinito che taglia ogni volta il momento presente ('piovere', 'verdeggiare', 'divenire') rilasciandolo contemporaneamente nel futuro e nel passato. O addirittura sembra che ci siamo introdotti in uno di quei mondi impossibili cui solo i letterati e i sognatori prestano fede. Ora Deleuze afferma che questo non-senso è la radice di ogni senso, se siamo d'accordo che il senso non si esaurisce in qualcosa che si manifesta, in qualcosa che si designa o che si significa, come se, insomma, da una parte o dall'altra dell'atto di coscienza o conoscenza ci fossero stabili sponde alle quali appoggiarsi e rivolgersi: come se, in altri termini, tutta la questione del senso si lasciasse prendere in una scena fenomenologica assicurata, a riva, da un polo noetico, e garantita, nel mare dell'esperienza del mondo circostante, da un oggetto noematico, l'io e l'oggetto qualunque = x. Deleuze osserva che non disponiamo di questa presa, anche se ogni volta ci comportiamo come se essa fosse alla nostra portata. Il senso non è una qualche causa nascosta e manifestabile, non sta in qualche luogo, non si può smarrire e ritrovare: piuttosto dovremmo pensarlo come un effetto (un effetto senza causa!), come una linea impalpabile che corre lungo i margini mobili di ciò che a rigore non dovrebbe avere margini, o forse anche, e meglio, come un punto che percorre questa linea (e insomma la traccia), che corre anzi su di essa senza che possiamo fissarlo. Prendiamo una proposizione qualsiasi. Essa non è la cosa che designa e significa. Non è l'io che vi si manifesta. Non è neanche il significato che contiene. Oppure è tutto questo, ma perché abbia senso deve essere distante dalla cosa senza però sganciarsi da essa, e deve avvicinarsi il più possibile alla cosa senza però identificarsi con essa. La catena delle significazioni e dei significanti ci immette in una serie infinita di rimandi. Tra la cosa e il nome della cosa (ancora Carroll insegna) c'è sempre uno scarto e dunque un rilancio possibile: ecco un primo paradosso. Ma non è questo che interessa Deleuze. L"espresso' non significabile di una proposizione qualsiasi, il suo senso, non si perde in un rilancio senza fine, ma si attesta, con un'altra paradossalità, nell'evento in cui la proposizione si immette, singolarità impassibile e neutra (Deleuze continua a guardare agli stoici) che congiunge l'interno della proposizione con l'esterno degli stati di cose, rendendo così visibili le due serie e la loro divergenza. L'esempio topologico del nastro di Moebius (caro anche a Lacan), che ci dà visivamente l'idea di un correre sulla superficie passando dall'esterno all'interno o dall'interno all'esterno senza bisogno di presupporre né un sotto né un sopra, anzi neutralizzando questa verticalità, aiuta Deleuze e anche noi a capire cosa Deleuze intende per senso. Ma non basta: è un esempio ancora troppo formale e rigido. Il senso, questo "vapore che si alza alla frontiera", corrisponde all'evento, e l'evento, se pure ha da caratterizzare un inusitato campo trascendentale, per quanto neutro, impassibile, gioco puro senza vincitori né vinti, tuttavia è sempre qualcosa di singolare;

Affetto = movimento divenire sempre sotto o sopra soglia percezione

Fare di tutta la gente un divenire

Soggetti diversi rispondono in maniera diversa ad uno stesso stimolo e la risposta sarà determinata dal modo in cui l’osservatore è strutturato. È la struttura dell’osservatore che determina come esso si comporterà e non l’informazione ricevuta. L’informazione in sé non ha significato se non quello che le attribuisce il sistema con cui interagisce, perciò la sua stessa esistenza, e la stessa realtà oggettiva, può essere messa «tra parentesi», secondo un'espressione utilizzata da Husserl.

Delirio acuto e lucido diffidente

Aristotele non si può pensare l'individuo senza comunità
Hobbes il contrario
chora il frammezzo che “infila i piani” e produce la stratigrafia del tempo filosofico
chora prende il sito di un deserto mobilitante, uno slancio che trattiene, che si trattiene; un ritegno che lascia venire, la struttura generale dell’esperienza che il concetto fa di sé.
Deleuze fa a p.188 all’architettura come “la prima delle arti” e “l’arte della cornice per eccellenza”, che incastra lembi e piani.
divenire concettuale è l’atto attraverso cui l’evento comune stesso schiva ciò che è
Il nuovo è l’attuale. L’attuale non è ciò che siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo divenendo, cioè l’Altro, il nostro divenir-altro. In ogni dispositivo, bisogna distinguere ciò che siamo (ciò che non siamo già più) e ciò che stiamo divenendo: ciò che appartiene alla storia e ciò che appartiene all’attuale. [...] L’attuale è lo schizzo di ciò che diveniamo»
la frattura che ha aperto il piano di immanenza favorendo quel movimento vorticoso del pensiero, quell’accelerazione infinita nella quale il pensiero stesso permane nella sua feconda crisis.
Abbiamo prima fatto cenno alla chora, il terzo genere oscuro che Platone, nel Timeo, consigliava di approcciare in un loghismo noto, un discorso bastardo e trasversale, onirico, infedele alla logica tradizionale. Della chora non si può parlare, la si può solo indicare denegandola in una allusione perpetua, lasciarla schiudersi senza luogo; ma chora è anche chiamata, nell’occorrenza platonica, come un setaccio.
nessuno di noi può valutare quello che fa quando fa per istinto
velleità, nessun vuol riconoscere quel certo potere oscuro e fatale che assegna limiti alla volontà
la ricerca delle cose perdute è intorpidita dai gesti abitudinari è per questo che è così difficile trovarle


luogo in cui il concetto si muove come evento: il campo “ab”, il luogo dell’indistinzione delle componenti che formano la consistenza interna del concetto

Il frammezzo segnala la torsione che si agita nel campo “ab” e che rende il concetto stesso un centro di vibrazione, tremito quantistico; è il disinnesto che innesta (greffer) il seme già disperso delle soluzioni successive e impensate del concetto stesso, un campo mobile nel quale si scrivono le movenze potenziali- concettuali.

«Il concetto è il contorno, la configurazione, la costellazione di un evento a venire»
Fra i nomi che Derrida lascerà lavorare nella “destinerranza dello spazioso” decostruente (traccia, terzo, resto, differenza, margine, tra, spaziatura) ognuno ripete e ri-aggiorna l’innominabile frammezzo, lo spazio dell’evenemenziale, la potenzialità im-potente e in-attuale che torna spettralmente ad inquietare il sistema.


jahvè


Tale movimento viscerale dei concetti li costringe a patire il sisma come presupposto della loro stessa risorsa ri-creativa.

Il luogo del dinamismo
ogni rilancio concettuale innescato dal frammezzo-traccia-terzo stornante l’origine, dall’altro il post-scriptum che risponde a questa grafica, ovvero il gesto volontario del filosofo che accelera questa manovra di “crisi siderale” del sistema portando ai suoi indici estremi le contraddizione di ogni articolazione, la pretesa di verità di ogni architettura teoretica.
i rintocchi del lavoro del nulla-evento-ritraentesi, la ritmica sotterranea di un conto totale, in continua formazione, senza alcuna possibilità dell’eliminazione del resto, della riserva-evento
L’enumerazione si muove tra gli zeri infiniti di un calcolo impossibile che, forse al fondo campiturale e caotico, avrà già fatto basculare il piano di immanenza, l’avrà ferito, spaccato.


disseminato la misurazione fuori dall’orbita dell’economico, ha estradato la dimora deflagrandola, ha squadernato l’idea del “Libro totale” con l’espansione siderale del Libro esteso nella dispersione del senso




Colpo di dadi




Una costellazione

fredda d’oblio e di desuetudine

non tanto

ch’essa non enumeri

su qualche superficie vacante e superiore

l’urto successivo

sideralmente

di un conto totale in formazione.
la trama di scuciture dell’intelaiatura testuale che dice altrimenti la colonna trasparente
il frammezzo come evento dello spazio-evenemenzialità in cui l’essere si cancella e dove la quadratura si realizza nella sua verità de-quadrata.


misurazione in Mallarmé indicherei il passo di Heidegger in cui l’uomo è colto come un segno che indica il nulla, che indica l’evento che si ritrae; «In generale, noi siamo noi stessi e siamo quelli che siamo solo in quanto additiamo ciò che si sottrae.

Questo additare (Weisen) è la nostra essenza (Wesen)
Proprio nel “misurare il frammezzo” della contrada-quadratura credo si muova un’architettonica dei luoghi d’evento, ove l’evento sia abbandonato al suo a-venire rilanciandosi e perciò sottraendosi.
l’uomo – rilancia Heidegger lettore di Hölderlin – abita poeticamente perché misura l’intervallo, la distanza che lo separa dai divini.
il Ni-ente che offre lo spazio dei luoghi.


dell’Aperto come della contrada cui l’uomo è affidato dalla contrada stessa; solo in essa egli può pensare, ovvero nell’abbandono, in quello stare in attesa che «è proprio un soggiornare in questo “tra” (Zwischen)».

zen
Non si svolge nel tempo, ma sulla pagina dove egli può disporre dei tempi. Pagina presente al piucchepresente. “ Il passato non è dietro di noi, ma sotto i piedi”. Pagina bianca ma scritta da sempre, bianca per oblio del testo già scritto, per cancellamento del testo sul fondo del quale tutto ciò che si scrive è scritto







piucchepresente

spezza il primato del fondale di riferimento informante, il suo moto escatologico e ogni formazione linguistico-concettuale.
Il piucchepresente si insedia nell’imperfetto così come nel futuro anteriore
teatro, Tale futuro anteriore che fa sempre circolare un testo nell’altro
di un passato indefinito che non sarà mai stato presente
Ablativo assoluto :

«Cognito vivere Ptolomaeum, navigandi in Aegyptum omissum consilium est.»«Venutosi a sapere che Tolomeo era vivo, fu abbandonata l'idea di navigare verso l'Egitto.»


diis iuvantibus
me absente
regibus exactis
mortuo Caesare



con l'aiuto degli dei
durante la mia assenza
dopo la cacciata dei re
dopo la morte di Cesare



lett. «aiutandoci gli dei»
lett. «mentre ero io assente»
lett. «cacciati i re»
lett. «morto Cesare»






Cicerone consule
Hannibale duce
diis invitis
caelo sereno
natura duce



sotto il consolato di Cicerone
sotto il comando di Annibale
contro il volere degli dèi
a ciel sereno
sotto la guida della natura



lett. «essendo console Cicerone»
lett. «essendo comandante Annibale»
lett. «essendo gli dèi contrari»
lett. «essendo il ciel sereno»
lett. «essendo guida la natura»

«Hostibus victis, civibus salvis, re placida, pacibus perfectis, bello exstincto, re bene gesta, integro exercitu praesidiisque... (Plauto)»«Vinti i nemici, salvi i cittadini, tranquilla la situazione politica, fatta la pace, spenta la guerra, condotta felicemente l'impresa, illesi l'esercito e le guarnigioni...»


cognito, «venutosi a sapere»; nuntiato, «essendo stato annunciato»; audito, «corsa la voce»; permisso, «essendosi permesso»; edicto, «essendosi ordinato», «dato l'ordine» ecc.
guerra del significato, guerra dell'eterno differimento, corrosiva
cedere all'assedio atroce dell'attesa, che consuma
non si muore quando si deve quando si può
salvazione mondana
immune dalla peste si cristallizzò adolescenza magnifica sempre più impermeabile alle formalità, indifferente alla malizia e alla diffidenza felice in un suo mondo di realtà semplice
non capiva perché le donne si complicassero la vita, risolveva, era nuda l'unica forma per lei decente
abbandonato deserto solitudine vagare senza croci da sopportare sogni senza incubi bagni interminabili pasti senza orario , profondi prolungati silenzi senza ricordi
trasformarla donna utile
lucida abilità farsi beffe di tutti
negligenze sfuggono comprensione
ammaestrare
era l'essere

indiafanata pallore intenso
bianco remito , infrazione sollevamento uscita dall'aria degli scarabei e delle dalie attraversavano l'aria dove si spegnevano le 4 del pomeriggio si perdevano nelle alte arie dove non potevano raggiungerla nemmeno gli alti uccelli della memoria
«Il concetto è il contorno, la configurazione, la costellazione di un evento a venire»
ritmica sotterranea di un conto totale, in continua formazione, senza alcuna possibilità dell’eliminazione del resto, della riserva-evento. Anzi, precisamente tale resto, il frammezzo critico che impedisce il compimento dialettico del sistema, resiste al processo di totalizzazione giustificatrice della ragione, del cosmo.
Per riflettere sull’istanza di questa misurazione in Mallarmé indicherei il passo di Heidegger in cui l’uomo è colto come un segno che indica il nulla, che indica l’evento che si ritrae; «In generale, noi siamo noi stessi e siamo quelli che siamo solo in quanto additiamo ciò che si sottrae. Questo additare (Weisen) è la nostra essenza (Wesen)».74 L’uomo indica il sottrarsi stesso dell’evento, si trova abbandonato nel frammezzo che egli misura nel suo poetico abitare.
architettonica dei luoghi d’evento, ove l’evento sia abbandonato al suo a-venire rilanciandosi e perciò sottraendosi
L’abitare dell’uomo sta in questo misurare il frammezzo in cui ci si trova e «il poetare è probabilmente un modo eminente del misurare».72 Nel suo saggio su Heidegger, Mazzarella scriverà: «“Poetare è misurare”. Nel poetare accade (sich ereignet) ciò che ogni misurare, nel fondamento della sua essenza, è. Perciò è importante fare attenzione all’atto fondamentale del misurare».73
dell’Aperto come della contrada cui l’uomo è affidato dalla contrada stessa; solo in essa egli può pensare, ovvero nell’abbandono, in quello stare in attesa che «è proprio un soggiornare in questo “tra” (Zwischen)».70 Il pensiero rammemorante cui Heidegger allude in queste pagine è possibile solo nell’abitare questo tra, l’intervallo e il frammezzo del Geviert che nell’unione che interseca i quattro (divini-umani-cielo-terra) elide l’essere inteso onticamente e lo svela nella sua persistenza di spaziamento auto-ritraentesi, come il Ni-ente che offre lo spazio dei luoghi.
Già Deleuze pensava l’evento come l’avvenire d’una vecchia ferita. Derrida coglie però nell’evento una spettralità strutturale: l’evento può avenire perché già da sempre venuto, torna dall’inattuale come lo spettro (revenant) dell’origine dispersa e irrisalibile, torna senza lasciarsi intravedere, per rilanciarsi altrove; torna precisamente contro-effettuandosi. Il divenire deve restare un’ora perpetuo salvato allo scorrimento del tempo storico e l’evento deve permanere in un non accadere effettivo che si ripiega e si ripete, si rimanda e si ritarda costruendo il campo della “potenzialità im-potente” da cui i concetti vengono riattivati.
Attraverso l’apertura della quarta superficie o attraverso la casella vuota al centro dei quattro quadrati, sarete stati trascinati, sopraggiunti in un lavoro non ancora terminato, interminabile. Il quadro, o come volete, il cubo, non si richiuderà
è il “situante invisibile” e materia amorfa riluttante all’informazione
evoluzioni della strutturalità e della grafica supplementare, da cui dipartono le dislocazioni e i rilanci spaesanti dell’architettonica del margine frattemporale.
Il dramma teatrale non si esaurisce in una rappresentazione, nella ripresentazione di un presente-passato. Resta alle prese con un irrappresentabile. Il Mimo incarna il dramma: rammemora, sopravanza, “al presente e al passato”, tutto in un’“apparenza falsa di presente”.
Si tratta di un elemento geometrico-architettonico che segna la strutturalità asistematica del quasi-niente e svela il campo basale della costruzione del rilancio dei concetti.


grafica del frammezzo
strizzare l’occhio (clin d’oeil) all’abisso del nuovo in formazione, a restare nella sospensione del desiderio, a godere di esso.
disperde il senso in una disseminazione, in una deiscenza che «afferma la generazione sempre già divisa del senso»
La piega non gli sopraggiunge dal di fuori, è contemporaneamente il suo di-fuori e il suo di-dentro
senso “bianco” in quanto è riferito al non senso della spaziatura, al luogo in cui ha luogo solo il luogo. Ma questo posto è ovunque, non è un luogo fisso e determinato. [quantistico]
grande bianco “vuoto di senso”
si rimarca senza tregua, cioè scompare»
Ci si dovrà spostare tra le ripiegature di questo frammezzo dell’imene – che non è nulla di ontologicamente determinabile e i cui effetti di rimarca affiorano nelle sconnessioni costanti [tumore replicazione e stati quantistici]di cui ogni sistema in ogni tempo risente – per avvertire il movimento del rilancio del concetto e lo spazio dell’evenemenzialità (Offenbarkeit) dell’evento-divenire del concetto in mutazione.
In esso si traccia cancellandosi la “grafica” di un supplemento: l’incisione di una marca introvabile ed eccedente
pratica di spaziatura del fra che dissemina il senso, all’intervallo che sconnette e disorganizza le opposizioni ontologiche
«Sulla linea introvabile di questa piega, l’imene non si presenta mai, non è mai al presente-non ha senso proprio, non recupera più il senso come tale, cioè, in ultima istanza come senso dell’essere. La piega (si) moltiplica, ma non è (una)».36
Dunque, il vuoto semantico del tra
che dice l’imene, il suo essere senza referente in quanto suncategorema, veicola il lavoro di spaziatura, di articolazione “possibilitante”








Il “gioco dell’imene” mette in scacco l’essere, lo mette in disparte (écarter); non è né l’uno né l’altro, ma il tra che sta sospeso, ove nulla accade.Questo gioco implica un’indecidibiltà strutturale




il Mimo allude al fondo di un terzo non dialettizzabile.




Ciò che vale per “imene” vale, mutatis mutandis, per tutti i segni che, come pharmakon, supplemento, dif-ferenza e alcuni altri, hanno un valore doppio contraddittorio, indecidibile


traccia. La ripiegatura dell’imene, sospesa tra l’interno e l’esterno dell’antro, gioca tra due presenti che non hanno luogo che come una spaziatura che non è nulla: «Iato mascherato, impalpabile e non sostanziale, interposto, intromesso»:

Lo specchio non è mai oltrepassato e il ghiaccio mai spezzato. [...] Ai bordi dell’essere, il medium dell’imene non diventa mai una mediazione o un travaglio del negativo, esso elude tutte le ontologie, tutti i filosofemi, le dialettiche di tutti i bordi. Li elude, come ambiente e come tessuto, li avvolge, li rigira e li inscrive.34
l’imene è il nome di un antro, un ambiente di mezzo, il tra che “sospende” i differenti, il “tra due” contrari.

Hiroshima corsa tecnologica ingegneria sociale fantascienza

deleuze il relativismo (del piano) e la cultura per imitazione (neuroni a specchio compresi)

auto-sottraentesi all’epifania che conforma l’effettuale
Tutto potrebbe cominciare con una balbuzie, quella effettiva di Carroll per esempio, o quella in cui ciascuno di noi potrebbe paradossalmente esercitarsi: sì, c'è un legame importante tra il balbettare dell'autore e le "parole esoteriche" o le parole-bauli della sua opera, c'è un processo di rallentamento e condensazione, un'elaborazione dell'instabilità, un raddoppiamento del difetto, l'umorismo di un io che riesce a spiazzarsi mimando se stesso, contro-effettuandosi. Un linguaggio che si rende minore, che progetta di essere minorato anziché correggersi nell'ortopedia linguistica del senso buono.
Come quel vapore era tutt'altro che una nebbia, così questo smarrimento è ben diverso da una paralisi: anzi, per questa via, lungo la quale ogni senso si duplica in una disparità, un mondo (o semplicemente la nostra normale realtà d'ogni giorno) che sembrava fin lì immoto comincia a 'muoversi' o, come direbbe appunto Deleuze, a divenire.
Uno dei primi effetti della risalita di Alice alla superficie è lo smarrimento della propria identità. Si chiede turbata: "chi sono io?". Perdita della direzione e perdita dell'identità: sono effetti sufficienti a caratterizzare come non-senso questo mondo che dovremmo guadagnarci. Ma qui il non-senso o i paradossi del senso non sono il limite ultimo al quale possiamo arretrare, la soglia, pur mobile, oltre la quale sprofonderemmo nell'abisso del caos o saremmo presi dal mutismo dell'indicibile. Tutto al contrario: questo non-senso è finalmente un inizio, attorno al quale un altro pensiero deve mettersi al lavoro, e può farlo. In altre parole: questo non-senso si può (e si deve) dire, grazie ad esso possiamo (e dovremmo) agire nel mondo.
Ma la cosa più strana era che ogni volta che Alice fissava lo sguardo sopra uno scaffale, quello scaffale era sempre vuoto, benché gli altri tutt'intorno fossero pieni zeppi fino a traboccare. 'Ma qui le cose scorrono!' disse infine in tono accorato, dopo aver passato un paio di minuti nel vano inseguimento di un oggetto grande e luminoso, che a volte sembrava una bambola e a volte una cassetta da lavoro, e che si trovava sempre nello scaffale sopra quello che guardava. 'E' questa la cosa più indisponente... ma sai cosa faccio ora?' aggiunse come colpita da una idea improvvisa. 'La voglio seguire fino all'ultimo scaffale. Non potrà certo attraversare il soffitto!'. Ma anche questo tentativo fallì: la cosa attraversa il soffitto in tutta tranquillità, come se non avesse mai fatto altro
che il punto (come già diceva Lacan) manca sempre al suo posto: in una serie è la casella vuota, il posto mancante, nell'altra serie è l'elemento sovrannumerario, un occupante senza posto. Lo squilibrio produttore di senso è regolato da questo gioco di mancanza/eccedenza.
il senso è la distribuzione aleatoria del campo di effetti.
il punto è segreto, fuori della nostra portata (cioè incoglibile mediante le operazioni abituali di buon senso e di senso comune), però ad esso possiamo far corrispondere un sapere del paradosso.
bisogno di riorientare il pensiero passando attraverso la biografia e la bibliografia, nel tentativo di pervenire "a un punto segreto in cui la stessa cosa sia aneddoto della vita e aforisma del pensiero"
L'esempio topologico del nastro di Moebius (caro anche a Lacan), che ci dà visivamente l'idea di un correre sulla superficie passando dall'esterno all'interno o dall'interno all'esterno senza bisogno di presupporre né un sotto né un sopra, anzi neutralizzando questa verticalità, aiuta Deleuze e anche noi a capire cosa Deleuze intende per senso. Ma non basta: è un esempio ancora troppo formale e rigido. Il senso, questo "vapore che si alza alla frontiera", corrisponde all'evento, e l'evento, se pure ha da caratterizzare un inusitato campo trascendentale, per quanto neutro, impassibile, gioco puro senza vincitori né vinti, tuttavia è sempre qualcosa di singolare; per quanto assomigli all"'oggetto eterno" di cui parlava Whitehead (ecco un'altra intensa parentela di Deleuze, poco dichiarata), è sempre un evento singolo, un 'questo', e intrattiene con i corpi un legame decisivo.
. L"espresso' non significabile di una proposizione qualsiasi, il suo senso, non si perde in un rilancio senza fine, ma si attesta, con un'altra paradossalità, nell'evento in cui la proposizione si immette, singolarità impassibile e neutra (Deleuze continua a guardare agli stoici) che congiunge l'interno della proposizione con l'esterno degli stati di cose, rendendo così visibili le due serie e la loro divergenza.
Ora Deleuze afferma che questo non-senso è la radice di ogni senso, se siamo d'accordo che il senso non si esaurisce in qualcosa che si manifesta, in qualcosa che si designa o che si significa, come se, insomma, da una parte o dall'altra dell'atto di coscienza o conoscenza ci fossero stabili sponde alle quali appoggiarsi e rivolgersi: come se, in altri termini, tutta la questione del senso si lasciasse prendere in una scena fenomenologica assicurata, a riva, da un polo noetico, e garantita, nel mare dell'esperienza del mondo circostante, da un oggetto noematico, l'io e l'oggetto qualunque = x. Deleuze osserva che non disponiamo di questa presa, anche se ogni volta ci comportiamo come se essa fosse alla nostra portata.
Con il termine 'topologico' Deleuze intende indicarci, sfruttando ancora il senso comune di un sapere scientifico, questa diversità: non solo spazio ormai mancante di un centro soggettivo, di un orientamento a partire da un io, ma anche (e perciò) luogo della duplicità, dove la direzione è sempre almeno doppia e dove non è più possibile segnare il confine tra dentro e fuori sul modello dell'opposizione tra sopra e sotto. L'interno e l'esterno, rapporto che modifica in modo decisivo quello normale tra sopra e sotto (superficie e fondo), si coappartengono senza escludersi e senza identificarsi, ed è proprio il loro modo di stare assieme (sintesi disgiuntiva, per dirla con Deleuze, o, più tardi,agencement, concatenamento) che garantisce la distinzione.
la natura del rapporto che secondo Deleuze deve cambiare radicalmente: per superare la logica binaria (cui si sottomettono i nostri normali regimi di verità) il rapporto dovrà essere inclusivo, tenere insieme le serie divergenti senza che l'una si identifichi con l'altra. Perciò la superficie non si contrappone alla profondità né all'altezza, perciò non può essere uno spazio qualunque.
Deleuze è martellante su questo punto: in Alice sono le due serie del mangiare e del parlare, per noi potrebbe essere, più semplicemente (!), la serie delle cose e degli stati di cose e la serie di quelle che di solito chiamiamo idee; di là i corpi e le loro mescolanze (come suggerivano gli stoici), di qua l'incorporeità delle parole e delle immagini. Attenzione, perché è proprio qui che Deleuze lancia la sua sfida filosofica. Possiamo accettarla oppure rifiutarla, ma questa sfida consiste nel farci riflettere al fatto che normalmente noi tendiamo a far convergere le due serie in modo che si avvicinino il più possibile, e che magari si sovrappongano: i corpi potrebbero mangiarsi le parole, le parole sciogliere i corpi, e questo è successo tante volte nella storia del pensiero, ma poi noi vorremmo una sintesi a metà, una mediazione, una buona commistione di corpi e parole. C'è però un'altra strada, quella che lascia sussistere le serie nella loro differenza, sempre almeno due e divergenti. Per batterla bisognerebbe convincersi che il non-senso e il paradosso non sono ostacoli sul cammino ma, tutto al contrario, ciò che segna il cammino e permette di muoversi.
il mondo del non-senso, del paradosso, in cui la duplicità precede il senso (inteso come direzione), in cui non ci sono cause, in cui non c'è mai il nunc stans di un presente. Potremmo dire: è un mondo topologicamente complesso in cui nessun elemento va da solo, ma c'è sempre una doppia serie, e le serie non sono convergenti, o almeno, se convergono, lo fanno nell'ambito di una 'logica' della divergenza.


la follia delle profondità e l'apparente salute mentale delle altezze,

Di solito il senso viene pensato e adoperato servendosi di una filosofia implicita che ricava la propria verità dalla coppia profondità/altezza




Evento- istante -evento, concetto che cattura l'evento come virtualità dove nulla accade, estrapolandolo dall'empiria nella sua controeffettuazione, rispetto alla prima del moto che lo rende effettuale nello stato di cose.

L'evento conforma l'effettuale.

io che riesce a spiazzarsi mimando se stesso, contro-effettuandosi, raddoppiare uguale controeffettuare

Welfare e soddisfazione elettori

Risolvere problemi e propizita crescita economica

Diverse concezioni libertà
E concezione condizione di vita mediante ruolo ragionamento
Il funzionamento delle persone la loro umwelt

Cose che,una persona ha,il,diritto di,desiderare se è libera contro il principio dell utilità valutazione metrica mentale piacere dolore , meccanicistico
Libertà elemento centrale basata sul ragionamento
Ttenere,ciò che abbiamo ragione di desiderare, libertà pensiero ragione

Stuart mill differenza felicite ragione
Libertà felicità e sofferenze singola persona che hai suoi desideri
Andare male e speranza
Relatività felicità

Cehe tipo diritti società relazioni non massimizazione interesse individuale

Non giustizia legge ma benessere legge

A sm i th non felicità benthamiana o humiama le somme ma le ragioni delle felicità

L'efficienza nello scambio analizza la distribuzione di due beni tra 2 individui. Lo scambio tra i due soggetti avviene sempre a condizione che nessuno dei due risulti danneggiato dallo scambio (principio della scatola di Edgeworth) e che almeno uno risulti avvantaggiato (ovviamente questo dipende dai gusti dei due individui).
senza considerazione delle esternalità chomsky
Universalità (o dominio non ristretto): la funzione di scelta sociale dovrebbe creare un ordinamento delle preferenze sociali deterministico e completo, a partire da qualsiasi insieme iniziale di preferenze individuali;

Indecidibilitá fa risalire all'Unheimliche freudiano che Derrida i,terpreta e illustra a partire dall'idea e dalla funzione dell'imene, linguaggio che mima l'effetto fantasticoe non lo riproduce senplicemente, linguaggio che per Derrida recita senza referenza, liberato dall'impiego di procedimenti e regole fisse di scrittura e può rompendo e plasmando queste regole produrre e recitale il fantastico,, linguaggio preinfamtile dello zero significante glossalia ritmo si,copato tronco, zoppo diabolico, attraverso il quale è possibile esprimere linesprimibile, , jouer della linguamuoversi su partiture e righi inusitati



È vero che Derrida ha sempre messo in guardia contro l’idea del Libro: a suo avviso, infatti, si tratta di una ripresa travestita dell’antica comparazione dell’universo a un volume. Anche in La dissémination, egli avanza dei sospetti al riguardo: «Il Modello del Libro, il Libro Modello, non è forse l’adeguazione assoluta della presenza e della rappresentazione, la verità (homoiosis e adaequatio) della cosa e del pensiero della cosa, così come si produce innanzitutto nella creazione divina prima di essere riflessa dalla conoscenza finita? Libro di Dio, la Natura sarà stata nel Medioevo una grafia conforme al pensiero e alla parola divini, all’intendimento di Dio come Logos, verità che parla e si ascolta parlare»(10). Tutto questo gli appare in netto contrasto con le acquisizioni teoriche cui egli stesso è giunto, che enumera così: «Critica del significato trascendentale sotto tutte le sue forme; decostruzione, spostamento e subordinazione degli effetti di senso e di referenza, come di tutto ciò che ordinerebbe un concetto e una pratica logocentrici, espressivisti e mimetologici della scrittura; ricostruzione del campo testuale a partire dalle operazioni di intertestualità o del rinvio senza fine delle tracce alle tracce; reinscrizione nel campo differenziale della spaziatura degli effetti di tema, di sostanza, di contenuto, di presenza sensibile o intelligibile, ovunque essi possano intervenire»(11).

Il sogno mallarmeano del Libro non è forse incompatibile con tali posizioni? Alla domanda, il filosofo risponde in modo negativo: «Ciò che Mallarmé progettava ancora sotto il vecchio nome di Libro, sarebbe stato, “se fosse esistito”, tutt’altro. Fuori-libro»(12). E più oltre egli ne spiega i motivi: «Il Libro di Mallarmé è derivato dal Libro. Senza dubbio si distinguono in esso i tratti della più visibile filiazione che lo fanno discendere dalla bibbia. […] Ma tramite simulacro affermato e messa in scena teatrale, tramite effrazione della rimarca, ne è uscito: gli sfugge senza ritorno, non gli rinvia più la sua immagine»(13).


Le differenti forme che gli esseri divini e il sacro assumono nelle diverse religioni dipendono dalle strutture economiche e sociali (Harris 1977, 1979) e dalla storia culturale.


Nulla di preciso però si può dire sulle concezioni che dell’»Essere (Esseri) potente» ebbero i primi uomini. Le religioni dei popoli senza scrittura non possono essere considerate religioni «primi-tive» od «originarie», avendo anche questi popoli una storia culturale.

Le differenti forme che gli esseri divini e il sacro assumono nelle diverse religioni dipendono dalle strutture economiche e sociali (Harris 1977, 1979) e dalla storia culturale.

L’ipotesi sull’origine della religione che abbiamo precedentemente illustrato si basa su tre punti fondamentali:
la coscienza che l’Uomo ha del proprio essere mortale;
la tendenza umana a cercare di spiegare i fenomeni osservabili (in questo caso la morte) mediante cause non osservabili, con un’inferenza di tipo magico;
l’»Essere potente» come proiezione dell’Uomo, ovvero dell’idea di «capo-branco» che l’Uomo porta dentro di sè.

Diversi studiosi hanno fondato sull’uno o sull’altro di questi punti le loro idee sull’origine della religione; per esempio:
sulla coscienza di essere mortale: Koestler (1978); B. Chiarelli (1983); Maser e Gallup (1990);
sul pensiero magico: Gazzaniga (1985);
sull’ «Essere potente» come proiezione umana: Spinoza; Feuerbach; Freud (1913); Morris (1967)

In questo lavoro li abbiamo tutti e tre collegati.


caratteristiche strutturali del pensiero umano, e in particolare:
alla capacità di attribuire ruoli «dominanti» e «subordinati» all’interno di una gerarchia sociale, e di portare tale capacità a livello cosciente e razionale, ovvero concettualizzandoli;
alla capacità induttiva di astrarre da osservazioni singole regole generali, e quindi, nella fattispecie, costruire, dal fatto della morte, una teologia basata sul fatto della mortalità [pervenire, dai singoli eventi di morte, al concetto di mortalità generale];
al rifiuto della morte come termine dell’esistenza;
alla necessità di trovare un rapporto causa-effetto` per gli eventi osservati [questa necessità può anche dirsi «bisogno di spiegazione»];
alla capacità di «proiettare» i propri contenuti mentali (idee, sentimenti, valori) attribuendoli agli altri o riconoscendoli in essi. Questa capacità caratterizza, secondo Maser e Gallup (1990) la «mente». Essa può essere «definita come la capacità di (1) riflettere sui propri pensieri e sulle proprie emozioni (cioè essere coscienti di essere coscienti) e (2) usare tale capacità come base per inferire le esperienze altrui (p. 522). Ciò spiega l’antropomorfismo, da mentale a fisico, dell’ «Essere dall’immensa potenza.» Inoltre si deve rilevare l’importanza del linguaggio, il quale, dando all’esperienza concettuale soggettiva e particolare la capacità di diventare collettiva e generale, deve aver permesso la trasformazione della coscienza della morte da individuale a collettiva. Possiamo pertanto aggiungere che il sorgere della religiosità nell’Uomo deve probabilmente aver seguito lo sviluppo del linguaggio.


collegato particolari abitudini alimentari alla riduzione del tono serotoninergico ed alle sue conseguenze. Infatti, la sintesi neuronale della serotonina, che ha come precursore l’aminoacido triptofano, dipende non soltanto dalla disponibilità di triptofano ma anche dal rapporto nel sangue fra il triptofano (trp) e i grandi aminoacidi neutri (LNAAs, Large Neutral Amino Acids),

Fra gli alimenti usati dagli esseri umani alcuni, come il mais o il sorgo, hanno un basso valore del rapporto «trp/LNAAs».

La carenza di serotonina, come riportato sopra, comporta diverse conseguenze comportamentali, come la tendenza verso il comportamento aggressivo o il fanatismo ideologico-religioso

Fra le popolazioni dell’America precolombiana tali conseguenze si mostravano, generalmente, correlate positivamente con la dipendenza alimentare dal mais. Gli Aztechi soffrivano grandemente di carenza di serotonina, cui essi inconsciamente cercavano di porre rimedio consumando alimenti come l’amaranto o la carne umana che, avendo un alto valore del rapporto «trp/LNAAs», permettevano un aumento della sintesi di serotonina. Pertanto il loro cannibalismo poteva ben essere causato da una deficienza di serotonina causata a sua volta da una forte dipendenza alimentare dal mais (Ernandes & Giammanco 1992).




La speculazione teologica e filosofica ha tentato di conciliare l’Essere «potente» con quello «perfetto», per lo più tentando di razionalizzare e giustificare azioni associate alla fede nell’Essere potente che sembravano incompatibili con gli standards morali degli esseri umani.

Gli esseri umani sono pervenuti a varie concezioni dell’ «Essere perfetto», come il Deus sive natura di Spinoza, il deismo della maggior parte degli Illuministi, lo Spirito Assoluto dell’idealismo, il «Grande Architetto dell’Universo» dei Massoni. Noi non possiamo fare alcuna scelta a questo riguardo, anche se riteniamo molto più plausibile l’esistenza di un «Essere perfetto», che è l’immagine della parte neocorticale umana, piuttosto che quella dell’»Essere potente», che è l’immagine della parte rettiliana del cervello umano.