ulteriore teogonia orfica emerge dai Discorsi sacri (hieroi logoi, in ventiquattro rapsodie detta anche Teogonia rapsodica)[31], di cui diversi autori neoplatonici riportano alcuni passi attribuiti a Orfeo ma probabilmente frutto di una rielaborazione di materiale arcaico avvenuta tra il I e il II secolo d.C.[32].
Tempo (Χρόνος, Chronos) genera Etere e quindi un chásma (baratro, χάσμα) grande che si estende qua e là[33];
poi il Tempo per mezzo di Etere forma un "Uovo d'argento";
dall'"Uovo d'argento" emerge Fanes (Φάνης, Phanes)[34], ermafrodito, dotato di quattro occhi, con ali d'oro e munito di diverse teste di animali;
Fanes regna con Nyx (Notte) sua paredra, madre e figlia, dal potere mantico;
Notte genera Gaia e Urano, trasmettendo il potere regale a quest'ultimo;
Gaia e Urano generano Kronos che castra il padre strappandgli il potere regale;
il seguito è simile alla Teogonia esiodea fino a Zeus che inghiotte Fanes divenendo il Tutto;
Zeus riavvia una nuova teogonia, in questo nuovo processo il re degli dèi sposa Demetra che ha una figlia, Persefone, da Persefone, Zeus ha un nuovo figlio Dioniso che sarà protagonista nella nascita del genere umano:
« Presso Orfeo sono tramandati quattro regni: primo quello di Urano, che ricevette Crono[35], una volta che ebbe evirato i genitali del padre; dopo Crono regnò Zeus, che scaraventò nel Tartaro il genitore; in seguito, a Zeus successe Dioniso che, dicono, i Titani gravitanti intorno a lui dilaniarono, per una macchinazione di Era, e si cibarono delle sue carni. E Zeus, colto dallo sdegno, li folgorò e, generatasi la materia dalla cenere fumante da essi prodotta nacquero gli uomini; dunque, non bisogna che facciamo morire noi stessi, non solo come sembra dire il mito, perché siamo in un carcere, il corpo (questo infatti è chiaro), e non lo avrebbe detto affinché restasse segreto, ma non bisogna far morire noi stessi, anche perché il nostro corpo è dionisiaco: infatti noi siamo parte di lui, se è vero che siamo formati dalla cenere dei Titani, che ne mangiarono le carni. »
(Olimpiodoro. Commento al Fedone di Platone; fr. 220 Orfici. Testimonianze e frammenti nell'edizione di Otto Kern, p.509)
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