
Il ritratto di un antico continente nel ventunesimo secolo, su tela cinemetografica ovviamente. Può sembrare la presentazione
di un film di fantascienza, e forse per qualche bianco occidentale che
preferisce fermarsi a questa impressione per non impressionarsi troppo, è anche fin troppo azzeccata.
Come molti prima di me hanno definito, questo film è documentario
"apocalittico", è disperazione di un paese in progresso da troppi
decenni oramai. La parola chiave per leggerlo? "perduto". Come la terra delle due gole e il suo popolo, come i parenti dei due protagonisti e i protagonisti stessi. Su questa nota la pellicola sembra accordata alla perfezione, sino al particolare delle finestre che paiono televisori rotti, privi di
immaginazione, bianchi e luminosi, statici. La natura è l'anima delle persone e l'anima è negli occhi di un bambino che si accende disinvolto la sigaretta; nei movimenti meccanici di un
operaio che abbatte un palazzo a mazzate di sudore. Nella prima impressione che suscitano i paesaggi sono celati i sentimenti del regista. E nei rumori fastidiosi che accompagnano l'intero percorso delle cineprese si può afferare un impronta di denuncia non poco marcata.
Badiamo bene che non ho usato suoni ma rumori, perchè questo produce il progresso, a New York come a Pechino. Con arte e delicatezza lo spettatore avverte un substrato a questa disastrosa condizione, sa che questo non tutto, c'è qualcosa di sommerso come le case
dall'acqua. Lo si coglie nelle lamentele dei cittadini più anziani; nell'affetto per una rappresentazione del proprio villaggio su di una vecchia banconota; attraverso le parole di un bambino che canta un'antica canzone d'amore. Oltre i brandelli la Cina non ha passato, è già rovinosamente sfumata nel baratro dell'occidentalizzazione. Quì e dove tutto è ancora cavallo con la modernità. E dalla sella sembra che nessuno riesca più a scenderci, o sappia perlomeno il perchè di esserci salito.
Nessun commento:
Posta un commento