
È trasparente come un sogno a occhi aperti, Eyes Wide Shut (Usa e Gran Bretagna, 1999. Lo è fin dalla prima immagine: di spalle, Alice Harford si lascia scivolar via una morbida vestaglia. Stanley Kubrick dichiara le proprie intenzioni d'autore. Sullo splendido corpo di Nicole Kidman si apre l'occhio del cinema. A questa "apertura" del resto, allude la prima parte del gioco di parole che dà il titolo al film ( shut chiuso sostituisce open nell'espressione "eyes wide open" occhi ben aperti). È l'oggetto del desiderio, il corpo nudo di Alice. Meglio: è l'oggetto che evoca il desiderio che fa emergere alla superficie della coscienza, quella di Kubrick e della nostra. E qui, in superficie, il desiderio ci si mostra come se fosse trasparente. Certo, il desiderio non è mai trasparente, non arriva mai davvero alla superficie della coscienza. Piuttosto, ci arriva per così dire in maschera. La sua opacità prende forma assumendo i tratti d'un fantasma, o di più fantasmi. Ora si manifesta come sogno scatenante, ora come incubo e angoscia. Per lo più, anzi, nell'uno e nell'altro modo insieme. Così accade in Eyes Wide Shut. Il desiderio di Alice è evocato e portato in superficie prima da un incontro casuale a una festa e poi da un ricordo lontano. Quella stessa notte, le si ripresenta però come incubo, costringendola nel sonno a un riso che, appena sveglia, diventa pianto. E il marito? Anche per Bill (Tom Cruise) il desiderio ha in serbo quest'esperienza ambigua. Solo che, prima di manifestarsi apertamente come incubo profondo, la sua opacità riesce ad abitare a lungo la superficie della coscienza, leggera e trasparente come un sogno a occhi aperti, appunto. trasparente, ancora è la stessa narrazione. Questa almeno è l'impressionante che si ha in platea. Per quanto le situazioni si facciano man mano straordinarie, tuttavia c'è nelle immagini e nel montaggio una freddezza di sguardo che tiene in secondo piano il mistero. È come se Kubrick tornasse a raccontarci Arancia meccanica (1971), ma eliminandone il pathos. Nell'Alex di quel film si mostrava l'anomalia. L'inferno che era in lui si faceva immagine e suono. Kubrick se ne lasciava coinvolgere, e così ce lo comunicava: come inferno estetizzato. Ora, invece, in Bill - e in Alice - si scorge la normalità, fors'anche la banalità. Solo che, inaspettato, il suo volto è quello stesso d'allora: l'inferno. Raccontandocelo, quel volto, Kubrick evita coinvolgimento e iperbole. Sceglie piuttosto un'estetica della distanza, e in questo senso della trasparenza. D'altra parte, il film è disseminato fin dall'inizio di segnali, di sintomi che inducono in sospetto. La trasparenza narrativa - ci suggeriscono - è della stessa natura di quella del desiderio: è una maschera che dà forma all'opacità e superficie alla profondità. Davvero si può credere che, al contrario del desiderio di Alice, quello di Bill non abiti i sogni e l'immagirano ma si faccia concreta realtà? Nella prima parte del film, Bill viene lusingato da due giovani donne: ti porteremo dove finisce l'arcobaleno, gli promettono. Poi, molte sequenze dopo, sull'insegna d'un negozio di costumi (colmo di suggestioni oniriche) sta scritto "Over the rainbow". Mascherato, appunto, Bill immagina di poterlo raggiungere, quel luogo introvabile del desiderio. E lo raggiunge. Né potrebbe esser diversamente. Che cosa è l'oggetto del desiderio, se non il luogo che il desiderio si costruisce a propria immagine? Questo ci pare sia la grande villa dell'orgia, con le sue ombre erotiche e i suoi riti oscuri: il luogo dove, per il desiderio di Bill, finisce l'arcobaleno. Che lui per primo ne sia spaventato, ne è una conferma: i nostri fantasmi ci fanno paura proprio solo perché ci somigliano. D'altra parte, per quanto reale possa sembrare la situazione, Bill sta in essa con quel misto spaesante d'estraneità e familiarità, di marginalità e centralità, che è tipica di chi, dormendo sta fuori e dentro, ai margini e al centro del proprio sogno. L'opacità del desiderio finisce dunque per farsi trasparente anche alla banalità di Bill. La sua maschera posata sul letto è lì a rammentarglielo (in Schnitzler la circostanza ha una spiegazione realistica che nel film non è neppure tentata). E Bill, come accade negli altri grandi film di Kubrick, rischia di sprofondare, catturato nel proprio inferno. Tuttavia, suggerita da Alice, ora gli si presenta una via di fuga. Se gli occhi bene aperti ci mostrano l'anomalia su cui stiamo come su un abisso, è saggio chiuderli. Vedendo l'inferno, e poiché lo si vede, si scelga di vivere in superficie. Dunque: non "eyes wide open" ma, più coraggiosamente, "eyes wide shut". Anche perché, parafrasando e forse "migliorando" il cinismo di Frank Ziegler (Sydney Pollack), la vita continua: fa sempre così, fin quando non lo fa più.
Roberto Escobar
Da Il Sole 24 Ore, 10 marzo 1999