La traduzione italiana del Kokinshu, prima monumentale antologia della lirica nipponica.
I quattro si incontravano in segreto, spesso di notte, a verificare,cassare, integrare, lunghe liste di nomi accompagnate da documenti per ciascuna delle persone prese in esame. I criteri della selezione erano severissimi e complessi, per di più c’era poco tempo : dovevano finire prima che la nozione di quanto stavano preparando si diffondesse. A cercare di immaginarsi ora quei momenti di grande pressione e preoccupazione di cura estrema e attenzione a ogni dettaglio si ha l’impressione di una cospirazione ristretta nella preparazione, ma di ampia portata. E certo lo fu. Questi quattro funzionari di corte, membri di un’aristocrazia bassa o decaduta, stavano preparando una rivoluzione le cui proporzioni e i cui effetti nessuno sarebbe riuscito a calcolare. Il mandato che avevano ricevuto proveniva dall’imperatore stesso ed era la prima volta nella storia del Giappone, che un fatto simile accadeva. Daigo ascese al trono a tredici anni e si trovò a regnare dall’897 al 930, un periodo lunghissimo per quei tempi in cui i sovrani venivano incoronati bambini e indotti ad abdicare dopo pochi anni per consentire alla più potente famiglia del tempo, i Fujuwara, di governare in loro nome. Si stava dunque preparando una lotta per un nuovo assetto del potere ? Certamente, ma non quello politico, che dura il sogno di un mattino, bensì quello più profondo, lungo, imperituro a volte, della cultura e della poesia. L’imperatore Uda, padre di Daigo, era stato convinto dal grande ministro Sugawara no Michizane – poi caduto in disgrazia, esiliato, riabilitatao post mortem e infine deificato come protettore della calligrafia – che il Giappone potesse continuare la propria strada e il proprio sviluppo culturale, religioso, linguistico e letterario autonomamente. Con un decreto foriero di profonde trasformazioni politiche e culturali, nell’894 Uda aveva abolito le ambasciate in Cina e preso a promuovere una concezione più “nipponica” della società. I quattro funzionari di Corte, i quattro “cospiratori”, appartenevano a questa tendenza di rinnovamento nazionale. Daigo aveva loro chiesto di compilare un’antologia poetica che raccogliesse waka – e cioè le brevi poesie di trentun sillabe che da qualche tempo si andavano affermando come nuovo genere lirico – di poeti sia contemporanei che della generazione precedente. Waka significa poesia o canto del Giappone, non c’era all’epoca, pare, netta distinzione tra i due generi, e la raccolta sottolineava la propensione crescente per lo sviluppo della cultura nazionale. Certo, non veniva negata l’importanza della poesia cinese, ma come fonte tradizionale d’ispirazione, non come lingua né come forma.. Il principale compilatore, Ki no Tsurayuki (871?-945?) con gli altri tre, il cugino Ki no Tomonori (m. 906?), Mibu no Tadamine (att.898-920) e Oshikoshi no Mitsune (att.898-922), presentarono al trono, probabilmente nel 905, un’antologia oggi conosciuta in millecentoundici poesie e intitolata Kikin waka shu (raccolta di poesie vecchie e nuove) comunemente chiamata Kokinshu. Di quest’opera fondamentale e monumentale è ora uscita un’edizione in italiano curata da Ikuko Sagiyama dell’Università di Firenze. La Sagiyama ha mirata soprattutto a fornire un prezioso strumento didattico per gli studenti e gli studiosi di letteratura classica anche decidendo di privilegiare un tipo di traduzione accademica piuttosto che letteraria. Oltre alla versione delle poesie e delle introduzioni, sia quella in giapponese di Tsurayuki sia quella in cinese, forse di Ki no Yoshimochi (m.919), la curatrice ha compilato un ampio apparato critico di note e saggi e, soprattutto, ha accompagnato le poesie con il testo in lingua indicandone anche la lettura fonetica e fornendo in più la traslitterazione in caratteri latini. Le poesie del Kokinshu esprimomo in modo incomparabile l’altissimo livello di civiltà e di concezione estetica a cui era pervenuta la società di Heian (794-1185) imperniata intorno alla corte dell’omonima capitale imperiale, l’attuale Kyoto. La cultura, la letteratura, l’arte, la concezione dello spazio, quello naturale come quello architettonico e urbanistico, ma soprattutto il canone dei comportamenti, lo stile della vita concepita come un costante, festivo cerimoniale, costituirono il modello imprescindibile, una sorta di Stella Polare dello spirito, per la civiltà giapponese di allora come di tutte le epoche successive. Nel suo celeberrimo inizio della prefazione (Kanajo) che è anche uno dei primi documenti della critica letteraria giapponese, Tsurayuki dichiara che cosa intenda per poesia nazionale :”La poesia giapponese, avendo come seme il cuore umano, si realizza in migliaia di foglie di parole. La gente in questo mondo, poiché vive fra molti avvenimenti e azioni, esprime ciò che sta nel cuore affidandolo alle cose che vede o sente. Si ascolti la voce dell’usignolo che canta tra i fiori o della rana che dimora nell’acqua : chi, tra tutti gli esseri viventi, non compone poesie? La poesia, senza ricorrere alla forza, muove il cielo e la terra, commuove persino gli invisibili spiriti e divinità, armonizza anche il rapporto tra l’uomo e la donna, pacifica pure l’anima del guerriero feroce”. Tsurayuki mira a stabilire alcuni concetti fondamentali sul senso del waka e sulla sua funzione, rivendicando ad essa la forza di muovere Cielo e Terra, e di essere l’interprete dei sentimenti umani. E però si tratta di concetti contenuti anche nella prefazione in cinese e sostanzialmente riconducibili allo Shi jing stesso, il classico cinese della poesia. La fortuna letteraria di Ki no Tsurayuki è legata tanto alle sue poesie e alla sua diaristica quanto a questa prefazione. Ed è una fama dovuta anche al fatto che egli si esprime non in cinese, ma, come diremmo noi, in “volgare”, cioè nel giapponese dell’epoca. Questa scelta ne fece attraverso i secoli una sorta di eroe della cultura nazionale anche perché, come già detto, il Kokinshu possiede pure una prefazione in cinese (Manajo) scritta però da un letterato diverso. Le poesie del Kokinshu suddivise in vebti libri, trattano di vari argomenti. Anzitutto il rapporto con la natura nelle quattro stagioni, poi felicitazioni, viaggi, amore e vari altri generi. All’interno di ciascun gruppo le poesie sono ordinate cronologicamente, ma non nel senso della data di stesura, bensì in quella della situazione emozionale. All’interno del primo gruppo, primavera e autunno sono le epoche favorite e occupano ognuna due libri invece di uno ciascuno dell’estate e dell’inverno. In qualche caso la poesia riflette uno stato positivo legato alla stagione; ma perlopiù la bellezza della natura, lo splendore dei ciliegi a primavera, l’abbagliante rossore degli aceri d’autunno, tendono a riflettere il senso dell’impermanenza, della caducità delle cose :”Effimero, / dai rami è caduto / questo fiore, / ed ora sull’acqua fluttua / come labile spuma” scriveva Sugano no Takayo (att. 820 ca.) premettendo che il testo era stato”composto nella reggia del principe ereditario, vedendo il fiore di ciliegio cadere e fluttuare sull’acqua del canaletto”. Molte poesie sono infatti precedute da un breve scritto che introduce l’occasione del componimento e a volte consente di trovare la chiave di queste poesie ricche di sottintesi e metafore. Nelle poesie sull’amore, a cui sono dedicati cinque libri (XI-XV) dominano stati di caducità, fallimento, insoddisfazione, brevità, incompiutezza, separazione e quasi mai la poesia del Kokinshu Riflette gli aspetti positivi, lieti, appassionanti dell’amore stesso. Komachi per esempio : “Non sa forse che sono / una desolata baia inospitale / ove non vegeta la tenera alga? / Il pescatore si ostina a venire / trascinando le gambe sfinite”. E’ qui che si fissò per sempre nella civiltà giapponese il canone non dichiarato dove il mondo dei sentimenti, delle passioni, della partecipazione della natura, dalla luna alla piccola alga, si compenetra col senso dell’impermanenza delle cose e degli esseri della tradizione buddhista. Questo canone estetico non dichiarato stabilì anche un vocabolario preciso, di circa duemila parole, che per i dieci secoli successivi divenne il parametro al di fuori dei cui confini uno scrittore di poesia nazionale, di waka appunto, non poteva uscire. Inoltre la pratica del hokabori, del prendere in prestito una linea o più, un’immagine o un concetto dal Kokinshu per creare una nuova poesia, divenne una costante nella lirica successiva. Ne nacque un’intima consapevolezza e delicata tristezza delle cose, il mono no aware che divenne un caposaldo della grande letteratura di Heian, punto di riferimento di tutta la cultura successiva e soprattutto sviluppato nel grande capolavoro narrativo scritto dalla dama Murasaki un secolo dopo, La storia di Genji. Forse da qui scaturisce anche quella passione, tipica dell’animo giapponese, che porta ad amare più del vincitore il vinto, se di intenti puri e totalmente dedito alla causa abbracciata. E’ la condizione dello spirito che Ivan Morris, reinterpretando la storia giapponese alla luce dell’ineluttabilità del dramma della vicenda umana, ma anche del fascino che da tale dramma stesso sprigiona, chiamò, con grande intuizione culturale e con sconvolgente anticipazione della propria tragica fine stessa, “The nobility of failure”.
Gian Carlo Calza su “Il Sole 24 Ore” del 25.03.2001
Giappone. Il mondo in 31 sillabe
In Occidente la forma più nota della poesia giapponese è sicuramente quella dell’haiku, affermatasi a partire dal secolo XVII con autori come Basho, Buson e Issa. Ma sarebbe un peccato fermarsi lì.L’universo della poesia del Sol Levante è debitore per certi aspetti della Cina, e privo di individualità marcate come Li po, Tu Fu, Po Chu I,Wang Wei, ma ha una complessità e una varietà che vale la pena di esplorare. E la lettura del Manyoshu o di questo Kokin waka shu, presentato al pubblico italiano dalla case editrice Ariele con l’ottima cura, scrupolosissima e amorosa, del professor Ikuko Sagiyama (pp.686, Lire 65mila) non è soltanto una piacevole esperienza letteraria, è un meraviglioso itinerario di conoscenza attraverso lo spirito di un popolo che ha avuto e continua ad avere una posizione così a sé e così decisiva nella storia dell’umanità.
Gian Carlo Calza su “Il Sole 24 Ore” del 25.03.2001
Giappone. Il mondo in 31 sillabe
In Occidente la forma più nota della poesia giapponese è sicuramente quella dell’haiku, affermatasi a partire dal secolo XVII con autori come Basho, Buson e Issa. Ma sarebbe un peccato fermarsi lì.L’universo della poesia del Sol Levante è debitore per certi aspetti della Cina, e privo di individualità marcate come Li po, Tu Fu, Po Chu I,Wang Wei, ma ha una complessità e una varietà che vale la pena di esplorare. E la lettura del Manyoshu o di questo Kokin waka shu, presentato al pubblico italiano dalla case editrice Ariele con l’ottima cura, scrupolosissima e amorosa, del professor Ikuko Sagiyama (pp.686, Lire 65mila) non è soltanto una piacevole esperienza letteraria, è un meraviglioso itinerario di conoscenza attraverso lo spirito di un popolo che ha avuto e continua ad avere una posizione così a sé e così decisiva nella storia dell’umanità.
Gli uomini dell’imperatore Il Manyoshu, ovvero “Raccolta di diecimila foglie”, è il corpus più antico della poesia giapponese, riunito intorno al 760 dopo Cristo, e consta di ben 4.500 testi : tra gli autori presenti, Kakinomoto no Hitomaro e Yamabe no Akahiti, i cui testi, Elegia del principe Hinami o Davanti al monte Fuji affondano le radici in un passato remoto cosmico in cui la terra e il cielo non si erano ancora separati o stavano per farlo. Il Kokin waka shu, o anche Kokinshu, ovvero “Raccolta di poesie giapponesi antiche e moderne”, è compilato nel 922 e ha una mole meno cospicua, anche se non esigua : circa 1.200 poesie suddivise in venti libri, di cui sei dedicati alle stagioni, cinque all’amore, uno ai viaggi, uno alle elegie, altri a soggetti vari, alcuni anche encomiastici e rituali. I compilatori sono quattro funzionari dell’imperatore Daigo, Ki no Tomonori,Oshikoshi no Mitsune, Mibu no Tadamine e Ki no Tsurayuki : tutti e quattro eccellenti poeti in proprio, tra i più presenti nell’antologia. Loro sono gli esempi della poesia moderna, mentre quella antica è in realtà rappresentata , oltre che da testi anonimi non entrati nel Manyoshu, da autori del cosiddetto periodo rokkasen o “dei sei geni poetici”, fioriti alla metà del secolo IX, tra cui una donna, Ono no Komachi, e un aristocratico leggendario amatore, Ariwara no Narihira.
L’importanza del ritmo giusto Questa edizione riproduce anche la prefazione giapponese, dovuta a uno dei compilatori, Ki no Tsurayuki, che è uno straordinario documento teorico sulla poesia, sulle sue qualità nazionali e linguistiche, sui suoi legami con lo spirito e il cosmo. La poesia propriamente giapponese ha “come seme il cuore umano”, e si realizza “in migliaia di foglie di parole”. Ma tutti gli esseri viventi, gli usignoli, le rane, compongono poesie. E “la poesia, senza ricorrere alla forza, muove il cielo e la terra, commuove persino gli invisibili spiriti e divinità, armonizza anche il rapporto tra l’uomo e la donna, pacifica pure l’anima del guerriero feroce”.E’ l’augusto Susanoo, fratello della dea del sole Amaterasu, che inventa la forma metrica del wak, cinque versi rispettivamente di 5-7-5-7-7 sillabe, 31 in tutto. La poesia, con il suo metro, il suo ritmo, la sua musica matematica, affonda le radici nel mito e nell’energia cosmica, e la sua funzione è quella di danzare la danza in cui, nella sensibilità dello shintoismo, si risolve l’universo.
Una suprema stilizzazione Eppure, a una prima lettura, niente ci appare più quotidiano, quieto,descrittivo, ripetitivo di questi versi. I temi, stagione dopo stagione, si alternano e ritornano in numerosissime, minime variazioni : il gelo, i susini, gli osignoli, le oche selvatiche, la foschia, i ciliegi, il glicine, il cuculo, il vento, la luna, il grillo, la neve. In cinque versi l’elemento paesaggistico, la descrizione della natura non può che esprimersi in un tocco lievissimo, di stilizzazione suprema, quella che gli occidentali conoscono soprattutto attraverso la pittura di un Hokusai o di un Utamaro. Il cuore umano è presente, è davvero il seme da cui sgorgano le immagini e si fermano in parole, come gocce di brina sulle foglie :ma non c’è in esso la drammaticità, lo spessore, la scissione, la disperazione cui ci hanno abituato secoli di poesia europea e cristiana. Anche nelle poesie d’amore il cuore giapponese batte a un’altra velocità : ci sono amanti che vorrebbero morire dal desiderio come rugiada sul fiore del crisantemo, la cui passione è come le acque del fiume Yoshino ched diroccano e urtano contro gli scogli, altri che si struggono per una donna appena intravista come fiori di ciliegi attraverso la foschia, altri ancora che non sanno da che parte girare il guanciale per ritrovare pace e sogni; Ono no Komachi si rivolge agli incantersimi per vedere nel sonno l’amato, e indossa al contrario la veste da notte; un anonimo, delizioso come talvolta, borghesianamente, i poeti minori delle antologie, desidera essere una cicala di giorno per piangere cantando, e una lucciola di notte per illuminare bruciando d’amore. Se c’è un’intensa e vasta fenomenologia del desiderio, manca del tutto il senso di colpa, il travaglio interiore, il contrasto tra il piano sensuale e quello spirituale dell’esistenza della nostra grande lirica d’amore.
La danza inesausta delle cose Poesia apparentemente senza miti e senza divinità, questa del Kokinshu è tutta percorsa dal senso del tempo e anche in essa, come in quella cinese secondo il giudizio di Montale, uomo e arte sono natura, al contrario che in occidente, dove arte e natura tendono all’uomo, a umanizzarsi all’infinito. L’infinito non sembra esistere per i poeti giapponesi, come non esiste per Omero e i lirici greci. Esiste la danza inesausta delle cose, delle superfici lucenti o buie delle cose, il loro ineluttabile passare. Ki no Tomonori si chiede “La vita? / Cos’è? E’ solo rugiada / effimera e vana”. E Fujiwara no Koremoto, di cui sappiamo soltanto che scrisse questo waka sul punto di morire, ci lascia un testamento eroico e leggero : “Perché pensavo / che la rugiada fosse / una cosa labile ? / La mia sorte da essa differisce / solo nel non posarsi sull’erba”.
Giuseppe Conte su “Il Giornale” del 5.05.2001
L’importanza del ritmo giusto Questa edizione riproduce anche la prefazione giapponese, dovuta a uno dei compilatori, Ki no Tsurayuki, che è uno straordinario documento teorico sulla poesia, sulle sue qualità nazionali e linguistiche, sui suoi legami con lo spirito e il cosmo. La poesia propriamente giapponese ha “come seme il cuore umano”, e si realizza “in migliaia di foglie di parole”. Ma tutti gli esseri viventi, gli usignoli, le rane, compongono poesie. E “la poesia, senza ricorrere alla forza, muove il cielo e la terra, commuove persino gli invisibili spiriti e divinità, armonizza anche il rapporto tra l’uomo e la donna, pacifica pure l’anima del guerriero feroce”.E’ l’augusto Susanoo, fratello della dea del sole Amaterasu, che inventa la forma metrica del wak, cinque versi rispettivamente di 5-7-5-7-7 sillabe, 31 in tutto. La poesia, con il suo metro, il suo ritmo, la sua musica matematica, affonda le radici nel mito e nell’energia cosmica, e la sua funzione è quella di danzare la danza in cui, nella sensibilità dello shintoismo, si risolve l’universo.
Una suprema stilizzazione Eppure, a una prima lettura, niente ci appare più quotidiano, quieto,descrittivo, ripetitivo di questi versi. I temi, stagione dopo stagione, si alternano e ritornano in numerosissime, minime variazioni : il gelo, i susini, gli osignoli, le oche selvatiche, la foschia, i ciliegi, il glicine, il cuculo, il vento, la luna, il grillo, la neve. In cinque versi l’elemento paesaggistico, la descrizione della natura non può che esprimersi in un tocco lievissimo, di stilizzazione suprema, quella che gli occidentali conoscono soprattutto attraverso la pittura di un Hokusai o di un Utamaro. Il cuore umano è presente, è davvero il seme da cui sgorgano le immagini e si fermano in parole, come gocce di brina sulle foglie :ma non c’è in esso la drammaticità, lo spessore, la scissione, la disperazione cui ci hanno abituato secoli di poesia europea e cristiana. Anche nelle poesie d’amore il cuore giapponese batte a un’altra velocità : ci sono amanti che vorrebbero morire dal desiderio come rugiada sul fiore del crisantemo, la cui passione è come le acque del fiume Yoshino ched diroccano e urtano contro gli scogli, altri che si struggono per una donna appena intravista come fiori di ciliegi attraverso la foschia, altri ancora che non sanno da che parte girare il guanciale per ritrovare pace e sogni; Ono no Komachi si rivolge agli incantersimi per vedere nel sonno l’amato, e indossa al contrario la veste da notte; un anonimo, delizioso come talvolta, borghesianamente, i poeti minori delle antologie, desidera essere una cicala di giorno per piangere cantando, e una lucciola di notte per illuminare bruciando d’amore. Se c’è un’intensa e vasta fenomenologia del desiderio, manca del tutto il senso di colpa, il travaglio interiore, il contrasto tra il piano sensuale e quello spirituale dell’esistenza della nostra grande lirica d’amore.
La danza inesausta delle cose Poesia apparentemente senza miti e senza divinità, questa del Kokinshu è tutta percorsa dal senso del tempo e anche in essa, come in quella cinese secondo il giudizio di Montale, uomo e arte sono natura, al contrario che in occidente, dove arte e natura tendono all’uomo, a umanizzarsi all’infinito. L’infinito non sembra esistere per i poeti giapponesi, come non esiste per Omero e i lirici greci. Esiste la danza inesausta delle cose, delle superfici lucenti o buie delle cose, il loro ineluttabile passare. Ki no Tomonori si chiede “La vita? / Cos’è? E’ solo rugiada / effimera e vana”. E Fujiwara no Koremoto, di cui sappiamo soltanto che scrisse questo waka sul punto di morire, ci lascia un testamento eroico e leggero : “Perché pensavo / che la rugiada fosse / una cosa labile ? / La mia sorte da essa differisce / solo nel non posarsi sull’erba”.
Giuseppe Conte su “Il Giornale” del 5.05.2001
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