Quante cose vorrei dirti amico
Che non posso
perché devi stare lontano
solo e così smontato
e debole
che la vita mi comanda
un sacro
silenzio
Gioverà certo a uno di noi
Soffrire
È lo stesso ciò che si può pensare e ciò di cui c'è pensiero
(Táutón d'ésti noéin te kai hóuneken ésti nóema),
perché senza l'ente, in cui è espresso, non
troverai il pensare: infatti null'altro è o sarà
all'infuori dell'ente, poiché il Fato lo vincolò
ad essere intero e immobile. Perciò saranno solo nomi
che i mortali posero confidando che fossero veri:
nascere e morire, essere e non essere,
mutare luogo e cambiare per il colore luminoso (DK 28 B 8,34-41).
[1] Né mai era né sarà, poiché è ora tutto assieme,
uno solo, continuo. Quale mai nascita cercherai di esso?
Cresciuto come? e da dove? Né del non ente te lo lascerò
affermare né pensare, perché non è né dicibile né pensabile
che non è. E quale necessità l'avrebbe spinto
dopo piuttosto che prima, a nascere cominciando da niente?
Così bisogna o che esista del tutto o che non sia.
Né mai la forza della credenza ammetterà che dal non ente
nasca qualcosa di diverso. Per questo né nascere
né morire gli permise Giustizia sciogliendo le catene,
ma lo trattiene, e il giudizio su queste cose è in questo:
è o non è. Dunque è giudicato, come è necessario,
di lasciare una strada come impensabile e anonima (perché
non è vera), e che l'altra esiste ed è vera strada.
E come potrebbe morire l'ente? Come potrebbe nascere?
Se infatti nacque o se un giorno verrà ad essere, non è.
Così la nascita è spenta e di morte non si ha notizia (DK 28 B 8,5-21).