Il linguista danese Louis Hjelmslev, uno dei padri della semiotica, distingueva fra sistemi semiotici e sistemi simbolici.
A differenza dei sistemi semiotici, i cosiddetti sistemi simbolici sono dotati di conformità. Questo avviene perché i sistemi simbolici hanno solamente significanti e significati, mentre sono sprovvisti di figure. In questo modo è sempre possibile individuare una simmetria fra i due piani del sistema: essi sono perfettamente sovrapponibili e quindi confor
DERRIDA, LA CHORA
Dopo queste precauzioni e queste ipotesi negative, si comprenderà che noi lasciamo il nome di chora al riparo da qualsiasi traduzione. Una traduzione sembra certamente sempre all'opera, e nella lingua greca e dalla lingua greca alla tal'altra. Non consideriamone sicura alcuna. Pensare e tradurre attraversano qui la stessa esperienza. Se deve essere tentata, una tale esperienza non è soltanto perché si è in pensiero per un vocabolo o un atomo di senso e per tutta una tessitura tropica, non diciamo ancora di un sistema, e per le maniere di approcciare, per nominare, gli elementi di questa “tropica”. Che riguardino il nome stesso di chora (“luogo”, “posto”, “area”, “regione”, “contrada”) o ciò che la tradizione chiama le figure - comparazioni, immagini, metafore - proposte da Timeo stesso (“madre”, “nutrice”, “ricettacolo”, “porta-impronta”), le traduzioni restano prese nei reticolati dell'interpretazione. Esse sono indotte da proiezioni retrospettive, l'anacronismo delle quali può sempre essere sospetto. Questo anacronismo non è necessariamente, né sempre o solamente una debolezza alla quale un'interpretazione vigilante e rigorosa potrebbe sfuggire da parte a parte. Cercheremo di dimostrare che nessuno vi sfugge. Lo stesso Heidegger, che è uno dei pochi a non parlare mai di “metafora”, sembra cedere a questa retrospezione teleologica, contro la quale, altrove, ci mette giustamente in guardia. E tale gesto sembra altamente significativo per l'insieme della sua interrogazione e del suo rapportarsi alla “storia-della-filosofia”.
Ciò che è stato or ora detto della retorica, della traduzione o dell'anacronismo teleologico potrebbe far nascere un malinteso. Bisogna dissiparlo senza ritardo. Giammai pretenderemo proporre la parola giusta per chora, né chiamare infine essa stessa al di là di tutti i giri e le circonlocuzioni della retorica, né infine abbordare essa stessa per ciò che sarà stata, fuori da ogni punto di vista, fuori da ogni prospettiva anacronica. Il suo nome non è un nome giusto. È promesso all'incancellabile anche se ciò che esso nomina, chora, non si riduce, soprattutto, al suo nome. La tropica e l'anacronismo sono inevitabili. E tutto ciò che vorremmo mostrare è la struttura che, rendendoli così inevitabili, ne fa altra cosa che accidenti, debolezze o momenti provvisori. Questa legge strutturale sembra non essere stata approcciata come tale da tutta la storia delle interpretazioni del Timeo. Si tratterebbe meglio di una struttura e non di qualche essenza della chora, non avendo la questione dell'essenza più senso a tale riguardo. In che modo, non essendoci essenza, la chora si terrebbe al di là del suo nome? La chora è anacronica, “è” l'anacronia nell'essere o, meglio, l'anacronia dell'essere. Essa anacronizza l'essere.
Tutta la storia delle interpretazioni, abbiamo appena detto. Non si esaurirà mai l'immensa letteratura dedicata al Timeo dopo l'Antichità. È fuori questione trattarla qui nel suo insieme. E soprattutto presupporre l'unità o l'omogeneità di questo insieme, la possibilità stessa di totalizzarlo in qualche apprendimento ordinato. Quanto presupponiamo in cambio, si potrebbe ancora chiamare ciò una “ipotesi di lavoro”, è che la presunzione di un tale ordine (riunione, unità, totalità organizzata da un telos) abbia un legame essenziale con l'anacronismo strutturale di cui parlavamo poco fa. Sarebbe l'inevitabile effetto prodotto da qualche cosa come la chora - che non è qualche cosa e che non è come niente, neppure come ciò che essa sarebbe là, al di là del suo nome, se stessa.
Ricche, numerose, inesauribili, le interpretazioni informano, insomma, la significazione o il valore di chora. Esse consistono sempre a dare forma ad essa, determinandola, essa che, tuttavia, non può offrirsi o promettersi se non sottraendosi ad ogni determinazione, a tutte le marche o impressioni alle quali noi la diciamo esposta: a tutto ciò che vorremmo darle senza sperare di ricevere niente da essa... Ma quanto avanziamo in questa sede intorno all'interpretazione della chora - del testo di Platone sulla chora - parlando della forma data o ricevuta, di marca o impressione, di conoscenza come informazione, etc., tutto ciò attinge già a quanto il testo stesso dice della chora, al suo dispositivo concettuale ed ermeneutico. Ciò che, per esempio, per l'esempio, avanziamo riguardo alla “chora” nel testo di Platone riproduce o riporta semplicemente, con tutti i suoi schemi, il discorso di Platone circa la chora. Ciò anche in questa stessa frase dove mi sono appena servito della parola schema. Gli schemata sono le figure staccate ed impresse nella chora, le forme che l'informano. Esse ritornano a lei, senza che le appartengano.
Delle interpretazioni darebbero, dunque, forma a “chora”, lasciandovi la marca schematica della loro impronta e depositandovi il sedimento del loro apporto. E, tuttavia, “chora” sembra non lasciarsi neanche raggiungere o toccare, ancor meno scalfire, soprattutto sembra non farsi esaurire da questi tipi di traduzione tropica o interpretativa. Non si può neanche dire che essa fornisca loro il supporto d'un substrato o d'una sostanza stabile. Chora non è un soggetto. Non è il soggetto. Né il supporto (subjectile). I tipi ermeneutici non possono informare, non possono dar forma alla chora se non nella misura in cui, inaccessibile, impassibile, “amorfa” (amorphon, 51a) e sempre vergine, di una verginità radicalmente ribelle all'antropomorfismo, essa sembra ricevere questi tipi e dar luogo ad essi. Ma se Timeo impiega il nome di ricettacolo (dechomenon) o luogo (chora), questi nomi non designano un'essenza, l'essere stabile di un eidos, giacche chora non è ne dell'ordine dell' eidos, né dell'ordine delle mimesi, delle immagini dell'eidos, le quali si imprimono in essa - che così non è, non appartiene ai due generi d'essere conosciuti o riconosciuti. Essa non è e questo-non-essere non può che annunciarsi, vale a dire non lasciarsi prendere o concepire, attraverso gli schemi antropomorfici del ricevere o del dare. Chora non è, soprattutto, un supporto o un soggetto che darebbe luogo ricevendo o concependo, anzi lasciandosi concepire. Come negarle questa significazione essenziale di ricettacolo dal momento che questo nome le è stato attribuito da Platone? È difficile. Forse non abbiamo ancora pensato ciò che vuoI dire ricevere, il ricevere da questo ricettacolo, ciò che dice dechomai, dechomenon. Forse è questo di chora che cominceremo ad apprendere- a riceverlo, a ricevere da essa ciò che il suo nome chiama. À riceverlo, se non a comprenderlo, a concepirlo.
Si sarà già notato, diciamo ora chora e non, come ha sempre voluto la convenzione, la chora, o ancora, come avremmo potuto farlo per precauzione, la parola, il concetto, la significazione o il valore di “chora”. Ciò per molte ragioni di cui la maggior parte sono senza dubbio già evidenti. L'articolo definito presuppone l' esistenza di una cosa, l'essente chora al quale, attraverso un nome comune, sarebbe facile riferirsi. Ora quanto è detto di chora è che questo nome non designa alcuno dei tipi di essenti conosciuti, riconosciuti o, se si preferisce ancora, ricevuti dal discorso filosofico, cioè dal logos ontologico che fa la legge nel Timeo: chora non è né sensibile, ne intelligibile. C'è chora; ci si può persino interrogare sulla sua physis e sulla sua dynamis, almeno interrogarsi provvisoriamente a loro riguardo, ma ciò che c’è là non è; e noi ritorneremo più lontano su ciò che può dare a pensare questo c’è che d'altronde non dona niente dando luogo o dando a pensare, in cui sarà rischioso vedervi l' equivalente di un es gibt, di questo es gibt che resta senza dubbio implicato in ogni teologia negativa a meno che non 1a chiami sempre, nella sua storia cristiana.
Al posto della chora, ci si accontenterà allora di dire prudentemente: la parola, il nome comune, il concetto: la significazione o il valore di chora? Queste precauzioni non basterebbero; esse presuppongono delle distinzioni (parola/concetto, parola-concetto/cosa, senso/referenza, significazione/valore, nome/nominabile, etc.) le quali implicano esse stesse la possibilità, almeno, di un essente determinato, distinto da un altro e di atti che lo prendono di mira, lui o un suo senso, attraverso degli atti di linguaggio, designazioni o segnalazioni. Tutti questi atti fanno appello a generalità, ad un ordine delle molteplicità: genere, specie, individuo, tipo, schema, etc. Ciò che possiamo leggere, sembra, di chora nel Timeo è che “qualche cosa”, che non è una cosa, mette in causa queste presupposizioni e distinzioni: “qualche cosa” non è una cosa e si sottrae a quest'ordine delle molteplicità.
[J. Derrida, Il segreto del nome, trad. it. di F. Garritano, Milano, Jaka Book, 1997, pp. 50-54]
CHORA
Lo spazio riveste un ruolo significativo nella cosmologia, lo si può riscontrare anche nel Timaeus di Platone. Accanto a Modelli/Ideali e loro imitazioni, il filosofo greco parla di Χώρα(Chôra) ovvero di un “ricettacolo invisibile e senza forma…dell’intero divenire” dove le Forme sono materializzate, secondo una dimensione che le avvicina allo spazio (1). Nonostante le difficoltà ermeneutiche che sorgono nel definirla pienamente, Chora ha posto le basi del concetto di spazialità, luogo, collocazione, poiché l’influenza della cosmologia Platonica è evidente anche nella scienza contemporanea.
Chora riceve ogni cosa, senza prendere mai la forma degli oggetti che ne diventano parte. E’ fatta per essere un modello per tutte le cose, che muove e prende la forma di ciò che riceve; ed è per questo che sembra ogni volta diversa. (2)
Donald Zeyl, professore di filosofia, spiega che il concetto di Chora può essere interpretato come un “soggetto del tutto comune che temporaneamente nelle sue varie parti si trova a essere caratterizzato in vari modi…” in modo che i “particolari osservati” sono solo le sue parti. (3)
Il legame tra Chora e i suoi contenuti non è un legame “transitorio”. Chora interagisce con i propri contenuti essendo allo stesso tempo un qualcosa di distinto da loro in un “modo inspiegabile e complicato” così come afferma il filosofo. (4) Si realizza all’interno di un continuo divenire mentre l’asimmetria è causa del moto e del cambiamento. Chora è del tutto pervasa da forze non equilibrate ed eterogenee; è allo stesso tempo “scossa e scuotitrice” (5). Le forme vengono create attraverso idee e numeri.
In questa creazione dell’universo, i triangoli elementari alla base degli elementi vengono ristrutturati; ad esempio, durante le fasi di transizione di questo processo di creazione, i cubi possono essere destrutturati venendo tagliati sui lati come anche sui triangoli primari da cui hanno preso originariamente forma, risultando poi delle liscie forme fluttuanti. Diversi elementi vengono “uniti” l’un l’altro mediante l’uso delle analogie matematiche e di conseguenza “definizioni intermedie” vengono collegate [Figure 1 -2]. (6)
Al fine di comprendere la struttura della Chora Platonica, è importante sottolineare che lo stesso filosofo riconosce i limiti della cosmologia e della scienze naturali, in un modo che fa riferimento al criticismo contemporaneo sui limiti scientifici. A dispetto delle aspettative iniziali, tra cui quelle di Einstein, che la nuova tecnologia avrebbe eliminato l’indeterminatezza etc.(7), tali limiti resistono ancora. E’ impossibile raggiungere la “verità assoluta” a causa della distinzione tra oggetto scientifico e divenire, esattezza e cambiamento. “L’oggetto” scientifico sta cambiando costantemente e così, le leggi naturali devono di continuo essere riviste e ridefinite alla luce di nuove prove.
Platone respinge anche la possibilità di uno ‘stadio di verità più elevato’ nell’ immaginazione intuitiva (a differenza di Bergson) e nel mito. Egli assegna lo status di “scienza esatta” alla “ matematica”, in quanto sembra condurre verso la ‘verità assoluta’ ed ha infatti un ruolo importante nella nella cosmologia del filosofo. Come abbiamo già visto, la Choradi Platone è definita da una matrice matematica che dà poi il via alla ‘nascita’ delle forme. (8)
2. MATRICE DIGITALE
La Chora Platonica ha una “superficie liscia dove le imitazioni sono impresse”. (9) L’indagine sul se e sul come il concetto di Chora sarebbe collegato allo spazio algoritmico della Realtà Virtuale sta costituendo una sfida in senso filosofico e creativo, in particolare per quanto riguarda i modi attraverso cui, i contorni delle forme digitali sono generati mediante il ‘substrato’ algoritmico della matrice digitale.
Un computer con un sistema di modellazione 3D ha un’infrastruttura molto complessa composta da diversi modelli computazionali come ad esempio quello binario, numerico e grafico.(10) La realizzazione di una forma digitale si ottiene attraverso una serie di conversioni di dati che avvengono tra questi modelli con il supporto di matrici di trasformazione. Tale infrastruttura può essere interpretata come una superimposizione di diverse griglie di algoritmi, attraverso le quali, una forma digitale può essere progressivamente generata a partire dalla conversione di dati binari in raccolte di punti che formano vettori coordinati in uno ‘spazio’ matematico astratto per la creazione di poligoni orientati, che in seguito sono uniti gerarchicamente così da stimolare gli sfumati e colorati contorni 3D di volumi solidi.
Ciononostante, l’infrastruttura computazionale tende a essere fortemente astratta, imprecisa, irregolare e instabile, poiché è intrinsecamente probabilistica e acasuale. C’è una notevole differenza tra i vari modelli dell’infrastruttura computazionale perché ogni modello fa riferimento a leggi molto diverse tra loro, ne sono un esempio gli assiomi dell’algebra Booleana rispetto alle dimostrazioni geometriche. (11) Di conseguenza, ci sono moltissimi errori di conversione negli interscambi tra i modelli computazionali, che generano risultati paradossali, dal momento che si verificano molte interazioni precarie tra la complessità e l’astrazione.
Visualizzazioni e comportamenti geometrici inattesi sono il risultato di un piano di azione all’apparenza semplice e costante. Iniziamo in questo modo a comprendere la più ampia complessità delle coordinate che causano l’incompatibilità tra causa ed effetto all’interno di cui tale piano fallisce. Complicati ed eccessivi inizi & allarmanti conclusioni ellittiche lasciano emergere questa richiesta di nuove connessioni.
Lo spazio algoritmico della Realtà Virtuale non può essere regolarizzato e unificato in alcun modo, nemmeno attraverso la simulazione di ciò che sembra una semplice e regolare ‘costruzione’ geometrica. Gli intrinseci difetti di computer dotati di sistemi di modellazione 3D minano l’integrità geometrica e dunque, le proprietà e i comportamenti dei modelli digitali, pertanto i solidi digitali diventano non validi. (12) La visualizzazione di un contorno digitale diviene paradossale dal momento che le distinzioni tra volumi solidi e vuoti, lati interni ed esterni del solido digitale tendono a sparire e il caso della modellazione che si basa sul volume Booleano è emblematico del modo in cui si verificano tali inconsistenze. I solidi non validi sono composti perché i solidi originari intersecati, unificati o sottratti non possono essere completamente integrati per costituire un singolo solido.
L’orientazione della loro superficie diventa estremamente ambigua e così, i loro elementi geometrici non sono né ben collegati né correttamente collocati da parte dell’applicazione. Un eccessivo e non ordinato accumulo del poligono è ciò che caratterizza le superfici del solido non valido; di conseguenza, le ‘tracce’ del ‘percorso’ della sua costruzione restano visibili in quanto le sue superfici mantengono il colore, l’orientazione e la triangolazione dei solidi iniziali. Le inconsistenti linee del contorno di un solido non valido comprendono i margini non validi (che sono frammentati o più o meno connessi a due superfici) e le facce che possono essere aperte, sospese, infinite, auto-intersecanti, non manifold e/o sovrapposte, ecc. [Figure 3 - 4]
In quanto parte delle mie ultime ricerche effettuate sul disegno, una serie di diagrammi disegnati a mano permettono la visualizzazione delle fasi “nascoste” della generazione del contorno, durante le quali, emergono geometrie paradossali al momento “dell’ passaggio intermedio” tra un modello algoritmico e un altro, queste fasi non sono visibili quando vengono modellati i solidi. Tuttavia, grazie ai disegni, si è potuta inventare la loro possibile visualizzazione in base al modo di operare delle infrastrutture del computer seguendo una scia di creatività. La comparsa di infraspazi è di particolare rilievo e ciò inaspettatamente si verifica tra diversi ordini geometri. Imprevedibili e preoccupanti spostamenti avvengono tra forme ideali, realistiche e non valide che hanno superfici sospese, contorni eccessivi, profondità ambigue, tensione della superficie, costellazioni dinamiche non orientate dei punti geometrici, geometria al rovescio ecc. [Figure 5a & 5b]
3. DALLO SPAZIO AL LUOGO E VICEVERSA
Secondo la tradizione, la comune architettura costruita è associata alle nozioni di funzionalità, stabilità e ordine. Basata sulla logicità di questo concetto, chiusura, stabilità, uniformità, solidità e integrità della forme ideali e generiche del cubo sono date per certe. Gli scritti di Kenneth Frampton sul luogo hanno qui una rilevanza particolare in termini di comprensione dello status e della finalità dell’idea di ‘costruzione come casa’:
Il luogo, come un fenomeno Aristotelico, si manifesta…a un livello concreto con la costituzione di un articolato regno in cui l’uomo…può avere origine. La ricettività…di un luogo…dipende…dalla sua stabilità nel senso quotidiano. (13)
Come abbiamo tuttavia visto, Chora è allo stesso tempo scossa e scuotitrice e del tutto pervasa da forze non equilibrate ed eterogenee. Come possiamo osservare anche nella scienza e nella cosmologia contemporanea, lo spazio è davvero polimorfo, mentre il luogo dinamicamente e costantemente si sviluppa in un modo simile. Fondati su tali caratteristiche, gli spazi relativistici possono emergere da stati intercambiabili di simmetria e asimmetria; inoltre, interazioni dinamiche possono ricorrere tra i vari ordini dello spazio a causa di un più ampio assortimento di coordinate mutevoli e di variabili. Grazie a queste interazioni, le quali possono spesso essere invisibili e dunque ignorate, il concetto comune riguardo al limite dell’architettura costruita è messo in discussione.
Questa nuova visione dello spazio è influenzata e arricchita in particolare dalla teoria della relatività di Einstein, dalla fisica quantistica e dai progressi della tecnologia dell’elaborazione dell’informazione. Secondo Lev Manovich, così come descrive l’insegnante e critica Monika Bakke, questo cambiamento segna il passaggio dal Modernismo all’ “informazionalismo”; ne consegue che il punto focale non è costituito dagli oggetti e dalle forme, ma dai vari “flussi di informazione” e in base a tale cambiamento lo spazio viene definito come “sostanza informazionale”. (14) Oltre a ciò, l’interesse di artisti e architetti verso le interazioni in atto tra ambiente, architettura costruita e data-scape è aumentato, rendendo possibile la creazione di nuovi tipi di interventi site-specific, di pratiche relative alla spazialità e di teorie. (15)
Suscita forte interesse il fatto che sia il concetto di Chora sia la Realtà Virtuale abbiano una ‘matrice’ matematica. Nel concetto di Chora, le fasi intercambiabili di disorganizzazione e ricostruzione dinamica sono i passaggi necessari di una cosmogonia caratterizzata da unità e ordine, ma non da omogeneità; ed è proprio per questo che l’eterogeneità e l’asimmetria causano l’eterno moto e cambiamento. (16) Nonostante ciò, la generazione di uno spazio digitale all’interno della Realtà Virtuale presenta insitamente imperfezioni e indeterminatezza. Possiamo dunque sostenere che al posto dei solidi platonici originari, non solo otteniamo i loro corrispettivi digitali non validi ma anche paradossali nuovi tipi di forme geometriche che hanno multiple dimensioni.
Una creativa e filosofica ricerca dei possibili spazi ‘interclusi’ dell’architettura può avere come propria fonte d’ispirazione l’idea di Chora Platonica connessa alla scienza contemporanea, alla cosmologia e allo spazio algoritmico della Realtà Virtuale. Un convenzionale esempio di architettura costruita Modernista può essere repparesentato da un frammento 3D materializzato di una griglia; e proprio perchè ciò deriva dalla matrice algoritmica della Realtà Virtuale, l’ordine aritmetico della griglia presenta imperfezioni, mentre la tradizionale definizione e lo status del confine vengono contestati.
I paradossali spazi “interclusi” che vengono alla luce tra i vari ordini di luogo e spazio, possono essere visualizzati ed esplorati creativamente nei passaggi intermedi che si possono inventare tra di loro. (17) Nello specifico, è possibile far vedere i paradossali spazi “residui” che si creano tra le sovrapposte e interagenti griglie di architettura che sono algoritmiche, geometriche, topologiche e strutturali.
Un passaggio intermedio non è sinonimo di sospensione di ciò che S. Kwinter descrive come “stadio mesomorfico” delle sostanze. (18) Tale stadio costituisce soltanto un passaggio tra espisodi di rigenerazione. Stando a ciò che afferma Kwinter, il processo di ricreazione è solo un ritardo previsto e indeterminato che si verifica durante la trasformazione di una sostanza da uno stato all’altro. Lo stato mesomorfico è un prevedibile passaggio lineare, laddove un passaggio intermedio permette la visualizzazione di inaspettati prodotti non omogenei che prendeono forma da metodi all’apparenza semplici e sistematici di modellazione 3D usati in architettura.
Gli emergenti ed eterogenei spazi residui vengono lasciati come un passaggio intermedio aperto, per far sì che l’osservatore attui una costante rifocalizzazione tra i confini costruiti e virtuali dell’architettura. Ed è proprio attraverso questa rifocalizzazione che i nostri dubbi su ragionamento, memoria & percezione spaziale vengono messi in evidenza, mentre nuovi tipi di arte site-specific e di ricerche sul concetto di spazio traggono la loro ispirazione. [Figure 6 -7].
Note:
1 – Plato, Timaeus & Critias(traduzione in greco moderno e commenti realizzati dal Kaktos Literature Group), Ancient Greek Literature “The Greeks” Series 171, ed. Odysseus Chatzopoulos, Kaktos Publications, Athens, 1993, 50c – 51b, 52d (49a, 52b).
2 – Ibid, 50c (57c,e, 58a-c).
3 – Zeyl, Donald, “Plato’s Timaeus”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Winter 2009 Edition), ed. Edward N. Zalta ,http://plato.stanford.edu/entries/plato-timaeus/ accessed: 5/5/2010.
4 – Plato, Timaeus & Critias, (traduzione in greco moderno e commenti realizzati dal Kaktos Literature Group), Ancient Greek Literature “The Greeks” Series 171, ed. Odysseus Chatzopoulos, Kaktos Publications, Athens, 1993, 51a-b.
5 – Ibid, 49d, 52d-e, 53a, 57c,e, 58a-c.
6 – Ibid, 57c-d, 56d, 31c. Commenti Nos. 25 & 68, pp. 303, 313.
7 – Ibid, 27d. Commento No. 16, p. 300.
8 – Ibid, 27d. Commento No. 16, pp. 299-300.
9 – Ibid, 50e, 51a-b (50c).
10 – Fratzeskou, Eugenia, Visualising Boolean Set Operations: Real & Virtual Boundaries in Contemporary Site-Specific Art, LAP – Lambert Academic Publishing, Saarbrücken, 2009, pp. 69-75.
11 – Ibid, pp. 69-75.
12 – Ibid, pp. 75-130. Fratzeskou, Eugenia, “Inventing New Modes of Digital Visualisation in Contemporary Art” in Special Section “Transactions,” Leonardo41, No. 4 (2008), p. 422.
13 – Frampton, Kenneth, “On reading Heidegger”, Oppositions reader: selected readings from a journal for ideas & criticism in architecture 1973-1984, ed. Michael K. Hays, Princeton Architectural Press, New York, 1998, p.5.
14 – Manovich, Lev & Monika Bakke in Going Aerial. Air, Art, Architecture, ed. Monika Bakke, Jan Van Eyck Academie, Maastricht, The Netherlands, 2006, pp. 11, 14-15.
15 – Fratzeskou, Eugenia, “Art & Architecture: Investigation at the Boundaries of Space” in Digimag, numero 52, Marzo 2010, www.digicult.it/digimag/article.asp?id=1730
16 – Plato, Timaeus & Critias, (traduzione in greco moderno e commenti realizzati dal Kaktos Literature Group), Ancient Greek Literature “The Greeks” Serie 171, ed. Odysseus Chatzopoulos, Kaktos Publications, Athens, 1993, 57c, 58c.
17 – L’argomento del passaggio intermedio è osservato in diversi modi e anche nelle seguenti monografie: Fratzeskou, Eugenia, New Types of Drawing in Fine Art: The Role of Fluidity in the Creation Process, LAP – Lambert Academic Publishing, Saarbrücken, 2010 e Fratzeskou, Eugenia, Operative Intersections: Between Site-Specific Drawing and Spatial Digital Diagramming, LAP – Lambert Academic Publishing, Saarbrücken, 2010.
18 – Kwinter, S., “Mies and movement…” in The presence of Mies, ed. Detlef Mertins, Princeton Architectural Press, 1994, pp.93, 91-94.
comprensione dello status e della finalità dell’idea di ‘costruzione come casa’:
Il luogo, come un fenomeno Aristotelico, si manifesta…a un livello concreto con la costituzione di un articolato regno in cui l’uomo…può avere origine. La ricettività…di un luogo…dipende…dalla sua stabilità nel senso quotidiano. (13)
« Perciò non diremo che la madre è il ricettacolo di ciò che è generato, visibile e in genere sensibile, sia terra o aria o fuoco o acqua, né altra cosa nata da queste o da cui queste siano nate. Ma non ci sbaglieremo dicendo che è una specie invisibile e amorfa, che tutto accoglie e che in qualche modo molto problematico, partecipa dell'intelligibile ed è molto difficile a comprendersi » |
(Platone Timeo, 51a) |
- Essere secondo il vero e il falso (to on os alethès): è l'essere in quanto pensato: solo questo essere può essere falso; infatti la falsità è solo nel giudizio del soggetto che non si "adegua" all'oggettività del reale. Non esistono "cose false", ma pensieri falsi. Il che significa che l'essere in senso vero e proprio coincide col vero. Il che è molto prossimo al dire che la realtà non inganna, ma è il soggetto umano a porre diaframmi alla verità, a cercare di alterare ciò che di per sè sarebbe retto e limpido.
OGGETTO
DELL’INTER-PRETAZIONE
ATTO INTER-PRETATIVO
CORREDO NECESSARIO PER L’INTER-PRETAZIONE
PRINCIPIO
CORRETTIVO DELL’INTER-PRETAZIONE
(storia della tradizione)
1) Soggetto primario o naturale: a)fattuale, b)espressivo, costituente il mondo dei motivi artistici
Descrizione preiconografica
(e analisi pseudoformale)
Esperienza pratica(familiarità conoggetti e eventi)
Storia dello stile(studio del modo in cui in diverse condizioni storiche gli oggetti e glieventi sono espressi medianteforme)
2) Soggetto secondario o convenzionale, costituente il mondo diimmagini, storie eallegorie
Analisi iconografica
Conoscenza delle fonti letterarie(familiarità con
temi e concettispecifici)
Storia dei tipi (studio del modo in cui in diverse condizioni storiche itemi e i concettispecifici sono espressi medianteoggetti e eventi)
3) Significato intrinseco o contenuto, costituente il modo dei valori simbolici
Interpretazione iconologica
Intuizione sintetica(familiarità con letendenze essenziali dello spirito umano), condizionata dalla psicologia e dallaWeltanschauungpersonali
Storia dei sintomi culturali o simboliin generale (studio del modo in cui in diverse condizioni storiche letendenze essenziali dello spirito umanosono espresse mediante temi econcetti specifici)
L’analisi iconologica si fonda sull’intuizione sintetica, che Panofsky dice poter essere sviluppata più in un “profano di talento che in un erudito specialista” (Panofsky 1955: tr. it. 42). Eppure, vista la sua natura “irrazionale” e “soggettiva”, questa intuizione sintetica deve essere corretta “da uno studio del modo in cui, mutando le condizioni storiche, muta anche la maniera in cui le tendenze generali ed essenziali dello spirito umano sono espresse attraverso temi e concetti specifici” (Panofsky 1955: tr. it. 43). Studio che, con i termini di Cassirer, si potrebbe definire storia dei simboli.
Il portale, quindi, denuncia chiaramente la sua natura segnica, artificiale. Ciò potrebbe sembrare in contraddizione con quanto osservato sulla cornice come creatrice di un effetto di senso oggettivante.
Lo è solo apparentemente. In effetti il portale sviluppa due discorsi differenti:
da un parte ci fornisce degli enunciati (le notizie) in cui il débrayage serve a distanziare l’enunciatore e a dare quindi la sensazione di oggettività;
dall’altra ricorda però la sua natura riflessiva e quindi che c’è stato un atto dell’enunciazione; l’enunciatore ci fa capire che guardiamo il mondo attraverso di lui, che seleziona e organizza per noi le informazioni (che altrimenti andrebbero perse nel caos del mondo reale) e ci propone il suo discorso; un discorso, però, oggettivo.
Ripetiamo: la cosa notevole è che questo si ottenga senza una vera rappresentazione figurativa, senza cioè ritrarre realisticamente qualcosa (un oggetto, uno spazio, un paesaggio, ecc.). Basta utilizzare nella creazione dello sfondo e degli elementi che arricchiscono la pagina gli stessi valori plastici che troviamo nella realtà.
Così ci comporteremo di fronte ad una cosa nuova “come se” ci trovassimo di fronte ad un’altra cosa, già conosciuta e con la quale la novità ha qualche “punto di contatto”.
La componente fisica assume dunque un rilievo fondamentale nell'organizzazione del nostro sistema concettuale:
...noi generalmente concettualizziamo il non fisico in termini del fisico, cioè concettualizziamo ciò che è meno chiaramente delineato in termini di ciò che è più chiaramente delineato (Lakoff - Johnson 1980: 81).
L'importanza di questo chiarimento dipende dal fatto che Eco (1984) ritiene che la metafora sia una figura complessa basata su un doppio meccanismo metonimico. Nel caso della metonimia, come abbiamo appena visto, un sema prende il posto del suo semema o viceversa. Nella metafora, invece, lo scambio avviene fra due sememi. Ma che cosa consente questo scambio? Il fatto che fra i due sememi sia ravvisabile una qualche similarità, una qualche comune proprietà. Vale a dire, in termini semantici, che fra i due sememi vi sia un sema in comune. In definitiva, quindi, la metafora è resa possibile dalla comunanza di questo sema e dal legame metonimico che esiste fra il sema e i due sememi che andranno a scambiarsi.
viene meno la differenza classica fra proprietà concettuali e fattuali (o analitiche e sintetiche).
Se si registra tutto il sapere enciclopedico intorno a una data unità culturale, non esistono nozioni fuori dal contenuto concettuale. La foglia è un sema del semema albero tanto quanto lo è il seme, anche se la prima vi appare come componente morfologica e il secondo come causa od origine...
L'enciclopedia assume quindi la forma di una rete che consenta il passaggio continuo da un elemento all'altro. In natura questa struttura è tipica di radici che vengono dette rizomi:
ogni punto del rizoma può essere connesso e deve esserlo con qualsiasi altro punto, e in effetti nel rizoma non vi sono punti o posizioni ma solo linee di connessione; un rizoma può essere spezzato in un punto qualsiasi e riprendere seguendo la propria linea; è smontabile, rovesciabile; una rete di alberi che si aprano in ogni direzione può fare rizoma, il che equivale a dire che in ogni rizoma può essere ritagliata una serie indefinita di alberi parziali; il rizoma non ha centro (Eco 1984: 112).
- Essere secondo il vero e il falso (to on os alethès): è l'essere in quanto pensato: solo questo essere può essere falso; infatti la falsità è solo nel giudizio del soggetto che non si "adegua" all'oggettività del reale. Non esistono "cose false", ma pensieri falsi. Il che significa che l'essere in senso vero e proprio coincide col vero. Il che è molto prossimo al dire che la realtà non inganna, ma è il soggetto umano a porre diaframmi alla verità, a cercare di alterare ciò che di per sè sarebbe retto e limpido.
"lo studio empirico condiziona l'accesso alla struttura"
I fonemi non sono infatti unità foniche aventi un valore intrinseco, "una qualità propria e positiva": essi sono invece "entità oppositive, relative e negative"; essi non coincidono con una "sostanza materiale" propria, bensì con "il fatto che non si confondono tra loro"; essi consistono nelle loro reciproche "differenze" (p. 144). Questo principio della priorità delle differenze o delle opposizioni vale però per l'intero sistema lingua (non soltanto per i fonemi): "nella lingua non vi sono che differenze"; anzi, "nella lingua non vi sono che differenze senza termini positivi", poiché "la lingua non comporta né delle idee, né dei suoni che preesistano al sistema linguistico, ma soltanto delle differenze concettuali e delle differenze foniche" (p. 144). Più precisamente, "un sistema linguistico è una serie di differenze di suoni combinate con una serie di differenze di idee" (p. 146), e "ciò che distingue un segno" è proprio "tutto ciò che lo costituisce". Per questo - conclude Saussure (p. 147) - "la lingua è una forma e non una sostanza".
svuotamento della nozione tradizionale di struttura, fatta non più di contenuti (di elementi che si aggregano), ma in primo luogo di relazioni formali (differenze e opposizioni) [planomene]
"una totalità non consiste di cose ma di rapporti, e che non la sostanza, ma solo i suoi rapporti interni ed esterni hanno esistenza scientifica"
Nell'analisi psicologica junghiana il mito è un'espressione, in forma narrativa e simbolica, di una realtà psichica umana: da questo punto di vista le immagini mitologiche veicolano e traducono sentimenti, pulsioni, desideri universali. Il mito viene assunto, perciò, come una manifestazione collettiva altamente elaborata dello spirito umano, di cui rivela e, al tempo stesso, dissimula certe tendenze inconsce.
La psiche umana nasconde un sogno, più o meno subconscio, di un'utopia senza tempo dove si può godere di un'abbondanza illimitata, un mondo privo di sofferenza e mortalità, pieno di vitalità e piaceri. Il mito che ha incarnato, più di ogni altro, tale desiderio umano di abbondanza è quello dell'Età dell'Oro.
L'Età dell'Oro (mito che si ritrova sia nelle cultura occidentale che nella cultura orientale) è un tempo in cui non esiste morte né sofferenza, bensì serenità ed abbondanza. In questo sogno risuona l'eco nostalgico di un passato antico o luogo lontano ormai perduto che affonda le radici in un'ideale e perfetta società, ma anche la speranza di una rinnovata epoca di pace, giustizia e abbondanza che raggiungeremo in futuro.
L'immagine dell'abbondanza trova eco nelle "ricerche" del Graal, delle Isole Felici, dell'Eldorado, della Pietra filosofale, della Fontana della Giovinezza, dai bisogni palingenetici di rinascita e di rinnovamento, ai desideri di redenzione e riscatto anche terreno, a miraggi di immortalità che proprio nel Rinascimento hanno conosciuto un nuovo vigore.
Il mito di un'età aurea e di un paradiso originario incarna il desiderio umano di abbondanza, un desiderio che include quello di eterna giovinezza, di giustizia ed eguaglianza, di armonia con la natura.
La testimonianza più antica del mito dell'età dell'oro nel mondo greco è quella contenuta nel poema Le opere e i giorni di Esiodo (metà del secolo VIII a. C.):
«Gli dei immortali... fecero una stirpe aurea di uomini mortali, che vissero al tempo di Crono. Essi vivevano come numi, senza dolori, senza fatiche, senza pene. Non gravava su di loro la vecchiaia... si rallegravano in conviti in assenza di ogni male... avevano ogni sorta di beni: la terra fertile produceva spontaneamente frutti ricchi e copiosi. Benevoli e pacifici, abitavano nelle loro terre ricchi di greggi e amati dagli dei beati »
Nel racconto di Teopompo di Chio, il figlio di una ninfa narra al re Frigio Mida di una terra posta al di là dell'Oceano: la Terra di Merope. Là gli uomini sono alti il doppio e la loro vita ha una durata anch'essa doppia rispetto a quella degli uomini che abitano il mondo conosciuto. Le loro leggi prescrivevano comportamenti opposti a quelli in uso in Grecia. La loro vita assomigliava a quella dei primi uomini dell'età dell'oro: vivevano sani, senza nessuna malattia, la terra dava spontaneamente i frutti senza necessità di essere coltivata, essi, in breve, erano virtuosi e felici.
Un frammento di una commedia greca (430 a.C.) di Teleclide anticipa i motivi che ritroviamo più tardi nelle descrizioni medioevali del Paese di Cuccagna o di Bengodi:
«Ogni torrente spumeggiava di vino, e il pane e i panini facevano a gara davanti alle bocche degli uomini, supplicando di volerli mangiare... I pesci entravano nelle case e da sé si arrostivano, sdraiandosi a tavola. Un fiume di grasso brodo scorreva, e faceva rotolare pezzi di manzo bolliti »
Platone nel Politico compendia il mito in due cicli che eternamente si avvicendano: uno ascendente governato da una forza divina, uno discendente abbandonato a se stesso. L'età dell'oro corrisponde al ciclo ascendente, guidato da Dio e da divinità minori che, come pastori, si prendevano cura degli uomini divisi in varie greggi:
«Esseri soprannaturali, di natura divina, s'erano divisi a guisa di pastori le creature viventi, distribuite in gruppi secondo la specie. Non c'erano animali selvatici, le creature non si divoravano l'una con l'altra, la guerra non c'era... non c'erano ordinamenti politici; nessuno possedeva donne e figli ... godevano in abbondanza di frutta, dono di grandi alberi e vegetazione lussureggiante ... non praticavano agricoltura; da sola, spontaneamente, la terra produceva ogni frutto; non conoscevano vesti, non uso di giacigli; sotto la guida del pastore vivevano all'aria aperta in una temperata armonia di stagioni » (271b-d)
Platone delinea un'età dell'oro in chiave pastorale, organizzata in forma di "comunismo" utopico, nella quale gli uomini vivono concordi, senza bisogno di lavorare, in piena armonia con gli dei e l'ambiente naturale. Il benessere materiale favorisce, in questo paradiso terrestre, la possibilità di conversare e filosofare: « Gli alunni di Crono avevano possibilità, liberi da ogni occupazione, d'intrattenersi... per dedicarsi all'amore di sapienza » (272 b).
Negli autori latini, l'espressione età dell'oro designa un'epoca remota precedente a quella in cui vivevano e caratterizzata dall'assenza di violenza e di guerra, e persino di fatica e di lavoro: infatti, poiché la natura elargiva spontaneamente i propri doni a tutti, permettendo a ognuno di vivere nell'abbondanza, non c'era bisogno di arare i campi o di seminare.
Gli dèi, allora, vivevano fra gli esseri umani; questi ultimi, tuttavia, cominciarono a praticare la guerra e la violenza. Così, mentre da un lato il mondo si trasformava – secondo gli antichi - in un luogo dominato dall'odio e dalla sete di ricchezza, le divinità si allontanarono a una a una dal mondo umano.
La concezione di una felicità primitiva, simboleggiata non più da una razza d'oro ma da un'età d'oro (aurea aetas) dell'umanità, è espressa nelle Metamorfosi di Ovidio, i tratti descrittivi dello sfondo naturale sono quelli del paradiso terrestre:
«Era primavera eterna: con soffi tiepidi gli Zefiri/ accarezzavano tranquilli i fiori nati senza seme,/ e subito la terra non arata produceva frutti,/ i campi inesausti biondeggiavano di spighe mature;/ e fiumi di latte, fiumi di nettare scorrevano,/ mentre dai lecci verdi stillava il miele dorato »
Seneca ci offre la versione stoica della leggenda, la felicità del secolo aureo è dovuta al "comunismo", all'assenza di avarizia, al rapporto armonico con la natura:
«Gli uomini godevano in comune i prodotti della natura... e perfettamente tranquillo era il possesso delle comuni ricchezze... Gioivano guardando le costellazioni... quale intimo godimento doveva essere quel libero vagare fra tante meraviglie sparse nell'ampio universo! »
Il mito di un'età aurea fa la sua comparsa, in forme diverse, anche a livello popolare nell'immagine del Paese di Cuccagna o Bengodi con la differenza che non è un'utopia storica, proiettata in un passato perduto e irrecuperabile, ma è un'utopia geografica spogliata di ogni riferimento classicheggiate e ridotta al suo nocciolo essenziale: a fronte di una realtà di sofferenza e di miseria, si immaginava un mondo del tutto diverso e opposto, i cui tratti fondamentali sono l'abbondanza, la libertà e l'assenza di fatica.
Pieter Buegel il Vecchio, Il Paese di Cuccagna
In una realtà in cui le cattive condizioni climatiche, il susseguirsi di epidemie e le frequenti carestie causarono un aumento della mortalità, nella fantasia popolare si diffonde la credenza nel Paese di Cuccagna, un luogo mitico in cui l'abbondanza e la prosperità regnano sovrane, il cibo non manca mai e ci si può riposare.
La religione ha incanalato tale mito atavico, che pre-esisteva al fenomeno religioso, nelle illusioni collettive, di paradisi dell'al di qua e dell'al di là. La stessa immagine del Giardino dell'Eden, nell'antico testamento e prima ancora nella mitologia sumera, richiama a quella della mitica Età dell'Oro. Infatti confluiscono in questo mito – e nella sua versione plebea, quella del Paese di Cuccagna – anche le rappresentazioni ebraiche, cristiane e islamiche del paradiso. Il mito del paradiso terrestre in cui si godeva di un'abbondanza senza limiti e non si conosceva la morte né la sofferenza la troviamo nei primi capitoli della Bibbia, in cui come noto, viene descritta la creazione del mondo. Adamo ed Eva, progenitori di tutta l'umanità, vengono collocati in un giardino chiamato Eden, ove potrebbero vivere perfettamente felici, senza sperimentare la morte. Questa condizione paradisiaca, cioè perfetta, muta completamente allorché Adamo ed Eva disobbediscono al comando di Dio.
C'è l'idea neotestamentaria, e virgiliana, del lavoro come punizione del peccato originale: («Col sudore della tua fronte mangerai il pane», Genesi 3). Una terra che offre i suoi frutti spontaneamente è la meta degli ebrei nel viaggio attraverso il deserto: («un paese dove scorre latte e miele», Esodo 3, 8 ) e dove « se uno toccherà un grappolo, un altro grappolo esclamerà: "Io sono migliore, prendi me"».
Negli apocrifi del Nuovo Testamento ritroviamo i tratti dell'età dell'oro ovidiana: «comuni per tutti è la terra che, non più da muri divisa e da siepi, ancor di più è fertile. Sorgenti di dolce vino ripiene, di candido latte e di miele essa largisce». Nella tradizione islamica il paradiso è un meraviglioso giardino, sede dei giusti dopo la morte. Questi vivranno senza lavoro in un clima perfetto («adagiati su alti giacigli, non vedranno sole e non vedranno gelo», Corano 76, 12-21), saranno nutriti con cibi squisiti («qualcuno passerà attorno con vasi d'argento... saranno abbeverati da una coppa il cui licore è miscela di zenzero»), indosseranno «vesti verdi di seta e fine broccato», godranno della compagnia di «fanciulle dallo sguardo modesto, mai prima toccate da altri uomini».
La rassegna della mitologia e della letteratura sembra condurre alla conclusione che il sogno utopico dell'abbondanza è presumibilmente antico quanto il genere umano, e comprova che il desiderio di abbondanza (con tutte le sue derivazioni immaginate quali eterna giovinezza, assenza di classi sociali e ingiustizie, abolizione della sofferenza e della fatica) ha animato la visione di un mondo, per quanto illusorio in quanto impossibile allora da realizzare o sperimentare, in cui si potesse godere di un'autentica libertà e di un'autentica gioia. Il nucleo attrattivo di tale mito rivive oggi nella previsione di una singolarità tecnologica che inaugurerà un'età di abbondanza per l'umanità, stavolta non più nostalgico tempo o luogo immaginario e non più una proiezione subconscia della psiche umana, ma una realizzazione pratica e una conseguenza reale dell'esplosione di Intelligenza e dell'avanzamento esponenziale della Tecnologia.
Sul tema dell'abbondanza si consiglia il video: Peter Diamandis: L'abbondanza è il nostro futuro (TEDTalk, con sottotitoli in italiano)