e languido poema sulla fine di un’epoca e di un amore, ma illuminato da una scintilla di speranza in profondità, per chi ha voglia e coraggio di vedere e capire.
Ne è un esempio perfetto l’ultima inquadratura: due volti illuminati dalla luce di un cinema che non esiste più. Quasi un bianco e nero colorato. Ecco, in momenti come questo, Anderson si riappropria definitivamente del film e realizza il suo meraviglioso Vizio di forma.
Se proprio fossimo costretti a dare una definizione di Vizio di Forma sarebbe quella di un film che rievoca i classici del noir (Il Lungo Addio del regista ispiratore di Anderson, Robert Altman, in primis), genere ideale per esprimere una realtà che non si può o non si vuole comprendere, declinato peraltro al cinema della Nuova Hollywood (culminato con lo scandalo Watergate), in cui la trama, di solito proprio confusa e inestricabile, non è così importante quanto lo è l’ evocazione di un sentimento di insicurezza e sospetto. Un film che forse non è solido ed “universale” come The Master ma ugualmente pregnante di un enorme nesso di significati e rimandi. Con una grossa differenza rispetto al precedente e a quei classici da cui trae ispirazione, cioè che, nonostante tutto, Vizio di Forma è un film a lieto fine: in un finale straordinario, il sorriso che rivolge Doc al suo specchietto retrovisore illuminato da un faro (ennesimo segnale di un mondo che lo segue, lo intercetta, lo controlla), non lascia spazio a dubbi.
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