- 'Oggi devo inevitabilmente morire. Ne devo pure gemere?' ('Diatribe' I,1,22)
- 'Domani devo essere inevitabilmente imprigionato. Dovrò anche lamentarmi?' ('Diatribe' I,1,22)
- 'Sono stato condannato all'esilio. Chi mi impedisce di ridere, di essere di buonumore, di essere sereno?' ('Diatribe' I,1,22)
' Dal momento che è possibile che le cose stiano nel modo da noi prospettato -del resto, se si respinge questa nostra spiegazione, tutte le cose deriverebbero dalla notte o dal -tutto-insieme' o dal non-essere - si possono ritenere risolte tutte le precedenti aporie; esiste, quindi, qualcosa che è sempre mosso secondo un moto incessante, e questo modo è la conversione circolare (e ciò risulta con evidenza non solo in virtù di un ragionamento, ma in base ai fatti), e di conseguenza si deve ammettere l'eternità del primo cielo. Ed esiste, pertanto, anche qualcosa che provoca il moto del primo cielo. Ma dal momento che ciò che subisce e provoca il movimento è un intermedio, c'è tuttavia un qualcosa che provoca il movimento senza essere mosso, un qualcosa di eterno che è, insieme, sostanza e atto. Un movimento di tal genere è provocato sia da ciò che è oggetto di desiderio sia da ciò che è oggetto di pensiero. Ma questi due oggetti, se vengono intesi nella loro accezione più elevata, sono tra loro identici. Infatti, è oggetto del nostro desiderio il bello nel suo manifestarsi, mentre è oggetto principale della nostra volontà il bello nella sua autenticità; ed è più esatto ritenere che noi desideriamo una cosa perché ci si mostra bella, anziché ritenere che essa ci sembri bella per il solo fatto che noi la desideriamo: principio è, infatti, il pensiero. Ma il pensiero è mosso dall'intellegibile, e una delle due serie di contrari è intellegibile per propria essenza, e il primo posto di questa serie è riservato alla sostanza e, nell'ambito di questa, occupa il primo posto quella sostanza che è semplice ed è in-atto ( e l'uno e il semplice non sono la medesima cosa, dato che il termine uno sta ad indicare che un dato oggetto è misura di qualche altro, mentre il termine semplice sta ad indicare che l'oggetto stesso è in un determinato stato). Ma tanto il bello quanto ciò che per la sua essenza è desiderabile rientrano nella medesima categoria di contrari; e quel che occupa il primo posto della serie è sempre pttimo o analogo all'ottimo. La presenza di una causa finale negli esseri immobili è provata dall'esame diairetico del termine: infatti, la causa finale non è solo in vista di qualcosa, ma è anche proprietà di qualcosa, e, mentre nella prima accezione non può avere esistenza tra gli esseri immobili, nella seconda accezione può esistere tra essi. Ed essa produce il movimento come fa un oggetto amato, mentre le altre cose producono il movimento perché sono esse stesse mosse. E così, una cosa che è mossa può essere anche altrimenti da come essa è, e di conseguenza il primo mobile, quantunque sia in atto, può -limitatamente al luogo, anche se non alla sostanza- trovarsi in uno stato diverso, in virtù del solo fatto che è mosso; ma, poiché c'è qualcosa che produce il movimento senza essere, esso stesso, mosso ed essendo in atto, non è possibile che questo qualcosa sia mai altrimenti da come è. Infatti, il primo dei cangiamenti è il moto locale, e, nell'ambito di questo, ha il primato la conversione circolare, e il moto di quest'ultima è prodotto dal primo motore. Il primo motore, dunque, è un essere necessariamente esistente e, in quanto la sua esistenza è necessaria, si identifica col bene e, sotto questo profilo, è principio. Il termine 'necessario', infatti, si usa nelle tre accezioni seguenti: come ciò che è per violenza perché si oppone all'impulso naturale, come ciò senza di cui non può esistere il bene e, infine, come ciò che non può essere altrimenti da come è, ma solo in un unico e semplice modo. E' questo, dunque, il principio da cui dipendono il cielo e la natura. Ed esso è una vita simile a quella che, per breve tempo, è per noi la migliore. Esso è, invero, eternamente in questo stato (cosa impossibile per noi!), poiché il suo atto è anche piacere (e per questo motivo il ridestarsi, il provare una sensazione, il pensare sono atti molto piacevoli, e in grazia di questi atti anche speranze e ricordi arrecano piacere). E il pensiero nella sua essenza ha per oggetto quel che, nella propria essenza, è ottimo, e quanto più esso è autenticamente se stesso, tanto più ha come suo oggetto quel che è ottimo nel modo più autentico. L'intelletto pensa se stesso per partecipazione dell'intellegibile, giacchè esso stesso diventa intellegibile venendo a contatto col suo oggetto e pensandolo, di modo che l'intelletto e intellegibile vengono ad identificarsi. E', infatti, l'intelletto il ricettacolo dell'intellegibile, ossia dell'essenza, e l'intelletto, nel momento in cui ha il possesso del suo oggetto, è in atto, e di conseguenza l'atto, piuttosto che la potenza, è ciò che di divino l'intelletto sembra possedere, e l'atto della contemplazione è cosa piacevole e buona al massimo grado. Se, pertanto, Dio è sempre in quello stato di beatitudine in cui noi veniamo a trovarci solo talvolta, un tale stato è meraviglioso; e se la beatitudine di Dio è ancora maggiore, essa è oggetto di meraviglia ancora più grande. Ma Dio è, appunto, in tale stato! Ed è sua proprietà la vita, perché l'atto dell'intelletto è vita, ed egli appunto è quest'atto, e l'atto divino, nella sua essenza, è vita ottima ed eterna. Noi affermiamo, allora, che Dio è un essere vivente, sicchè a Dio appartengono vita e durata continua ed eterna: tutto questo, appunto, è Dio! ' (Metafisica, 12.7.1072a19-1072b30)
Può essere intesa in senso dinamico, come nell'idealismo, come manifestazione dell'Assoluto nella storia, che è iniziata (causata) dall'Assoluto e finisce col ritorno all'Assoluto -che quindi è anche la fine e il fine ultimo, l'effetto, oltreché la causa prima-: l'Assoluto non è solo l'inizio e la fine, ma è l'intera storia in ogni suo istante, e nulla di più oltre questa, per cui l'Assoluto solo alla fine è veramente ciò che è, vede sé stesso ed è visto dagli altri compiuto nella storia, ed è così -solo alla fine, quando è propriamente e veramente- causa di sé stesso.
Può essere intesa in senso dinamico, come nell'idealismo, come manifestazione dell'Assoluto nella storia, che è iniziata (causata) dall'Assoluto e finisce col ritorno all'Assoluto -che quindi è anche la fine e il fine ultimo, l'effetto, oltreché la causa prima-:
L'Aquinate pone la causa sui a fondamento ontologico e metafisico della libertà sia di Dio (Liber est causa sui) che dell'uomo (creato a Sua immagine e somiglianza), ma questa libertà si realizza in modo perfetto solamente quando la vita umana vive la vita del Creatore (Deus est ens per se subsistens, causa sui), che è il massimo grado possibile di ogni qualità, anche nella libertà.
Né la virtù si può possedere come un'arte qualunque che, una volta imparata, si possa metter da parte: bisogna ch'essa, per esistere, sia tutta in pratica; poiché un'arte, anche quando non la si eserciti, la si ritiene per le sue nozioni tecniche, e la virtù invece esiste soltanto nell'uso che se ne fa; ed il più alto uso che si possa farne é quello di governare un popolo e di perfezionarsi in quelle nobili pratiche di cui si fa gran parlare dovunque. Ma, un perfezionarsi, intendiamoci, non puramente oratorio sibbene effettivo. Tutto quel che di giusto e di bello dicano i filosofi, non é che l'effetto e la conferma della virtù di coloro che sono stati legislatori dei popoli. Da chi infatti nasce il senso della devozione o la fede religiosa? Da chi emana il diritto delle genti e quello stesso che si chiama diritto civile? Donde nascono la giustizia, la fede, l'equità? Donde il pudore e la continenza e l'odio d'ogni turpitudine e il desiderio della bellezza e della gloria? Donde la fortezza nelle fatiche e nei pericoli? Certo da coloro che, dopo aver ispirato queste virtù agli uomini con le loro dottrine, parte ne confermarono col costume e le altre sancirono con le leggi. Si racconta persino che Xenocrate, filosofo dei più generosi, essendogli stato chiesto in che cosa ai suoi alunni giovassero le sue dottrine, rispondesse: "nel sapere essi fare spontaneamente quel che loro imporrebbero le leggi" . Quel cittadino dunque che sa costringere tutto un popolo con l'impero e la minaccia delle leggi a far quello che i filosofi potrebbero persuadere con le loro dottrine soltanto a pochi alunni, é dunque da preferire a quegli stessi maestri che sanno soltanto dimostrare la teorica bontà delle leggi. Quale mai squisita eloquenza di questi ultimi potrebbe essere anteposta ad un ordine civile ben costituito per istituzioni e per costume? Come infatti io trovo preferibili di gran lunga, per dirla con Ennio, "le città grandi e imperiose" ai villaggi e ai castelli, così trovo preferibile, per la sicura conoscenza delle cose politiche, chi quelle città abbia governato con saggezza e con autorità a chi sia sempre rimasto lontano dai pubblici affari. E, poiché ci entusiasma in particolar modo l'idea d'accrescere le forze del genere umano, e volgiamo ogni nostro pensiero e ogni nostra fatica ad accrescere la sicurezza e il benessere della vita umana, spinti a questo piacere dagli impulsi stessi della nostra natura, procediamo sicuri per quella via che fu sempre cara ai nostri grandi, e non diamo retta a coloro che vorrebbero suonarci la ritirata e far retrocedere quelli che si son già di buon tratto avanzati.
(Cicerone, De re publica I, 2)
Come infatti io trovo preferibili di gran lunga, per dirla con Ennio, "le città grandi e imperiose" ai villaggi e ai castelli, così trovo preferibile, per la sicura conoscenza delle cose politiche, chi quelle città abbia governato con saggezza e con autorità a chi sia sempre rimasto lontano dai pubblici affari. E, poiché ci entusiasma in particolar modo l'idea d'accrescere le forze del genere umano, e volgiamo ogni nostro pensiero e ogni nostra fatica ad accrescere la sicurezza e il benessere della vita umana, spinti a questo piacere dagli impulsi stessi della nostra natura, procediamo sicuri per quella via che fu sempre cara ai nostri grandi, e non diamo retta a coloro che vorrebbero suonarci la ritirata e far retrocedere quelli che si son già di buon tratto avanzati.
La contemplazione in patria (ossia in Paradiso) sarà infatti per essentiam, quindi perfetta; mentre in via (durante la vita terrena) è possibile unicamente una c. per creaturas (mediante le cose create) imperfetta. Si determina così una gerarchia: al grado più basso si trova la c. della verità, quindi la c. di Dio in aenigmate (in modo enigmatico), poi il raptus di Paolo, quindi la visione in patria. La distinzione tra vita attiva e vita contemplativa costituisce un secondo polo di riflessione che, tra 12° e 13° secolo, si sviluppa sia all’interno del monachesimo certosino sia nel pensiero teologico. I certosini distinguono quattro tappe della vita contemplativa: lettura, meditazione, preghiera e c.; anche qui però si presenta il problema del ruolo dell’intelletto: la c. può infatti essere intesa come unione intellettuale oppure, al contrario, come una sospensione dell’attività intellettiva per poter essere colmati da Dio. I teologi tendono invece a definire la vita contemplativa in contrapposizione a quella attiva. Guglielmo di Auxerre collega quest’ultima ai doni di intelletto e sapienza, e la ritiene superiore a quella attiva perché più prossima agli angeli e quindi a Dio. Secondo Rolando di Cremona la vita attiva si manifesta in una azione visibile ed esteriore regolata dalla ratio, la contemplativa in una interiore e intellettiva. La vita contemplativa è superiore perché orientata alla visione di Dio, ma deve anche indirizzare la vita attiva e ne costituisce dunque il presupposto, oltre che il fine. Nel passaggio alla modernità tale correlazione diventa meno stringente in quanto l’attività si collega strettamente all’aspetto produttivo. Rovesciando la prospettiva antica e medievale ove la vita dell’uomo si definisce in funzione della c., nella modernità la verità può essere raggiunta solo attraverso l’azione, secondo una conoscenza che si modella sul ‘fare’. In tale contesto, la tematica della c. sembra rimanere appannaggio della mistica.
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